E-Book, Italienisch, 288 Seiten
Reihe: Extrema ratio
Meneghelli Il valore degli oggetti
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-082-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Segni, spoglie, scarti nel romanzo dell'Ottocento
E-Book, Italienisch, 288 Seiten
Reihe: Extrema ratio
ISBN: 979-12-5480-082-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Donata Meneghelli insegna Letterature comparate, Teoria della letteratura e Letteratura e studi visuali all'Università di Bologna. I suoi interessi si concentrano sul romanzo tra Otto e Novecento, l'intermedialità, la narrazione, l'adattamento, i rapporti tra letteratura e visualità e tra letteratura e cultura materiale. Ha lavorato come traduttrice dall'inglese e dal francese, e ha pubblicato saggi in numerose riviste nazionali e internazionali. Tra i suoi libri, ricordiamo Una forma che include tutto. Henry James e la teoria del romanzo (il Mulino, 1997) e Senza fine. Sequel, prequel, altre continuazioni (Morellini, 2018). Recentemente ha curato, insieme ad Andrea Cortellessa, il numero monografico della rivista il Verri dedicato a 'L'inconscio tipografico' (2024).
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Introduzione: l’oggetto di questo libro
Che ne è di un tavolo quando rimane da solo, al buio, nella cucina deserta, invisibile e non percepito? È ciò che si chiede Virginia Woolf nel romanzo . Lily Briscoe e William Bankes stanno discutendo del signor Ramsay e Lily, per rintuzzare le critiche nemmeno tanto larvate di Bankes, dice: “Oh, ma pensi al suo lavoro!”
Ogni volta che “pensava al suo lavoro”, lei vedeva di fronte a sé chiarissimo un grande tavolo da cucina. Era per colpa di Andrew. Aveva chiesto a lui una volta di cosa parlavano i libri del padre. “Soggetto, oggetto e natura della realtà”, aveva risposto. E alla sua esclamazione Oh cielo, non ho proprio idea di cosa voglia dire, “Pensi a un tavolo da cucina”, aveva detto lui, “quando lei non sta in cucina”1.
La scena sovverte la gerarchia tra ciò che è stato tradizionalmente ascritto al maschile (l’astrazione, il concetto, il generale, la speculazione) e ciò che è stato tradizionalmente ascritto al femminile (il concreto, il particolare, il corporeo, la sfera domestica): dopo la conversazione con Andrew, Lily non può pensare alla dottrina filosofica del signor Ramsay se non nella forma di un modesto tavolo da cucina, l’astratto diventa il concreto, il generale si muta nel particolare, il concetto diventa la cosa e viceversa. Il tavolo di Ramsay, reso malfermo da quella sovversione, racchiude in sé una questione su cui Virginia Woolf non ha smesso di arrovellarsi: la “natura della realtà”, il rapporto tra soggetto e oggetto, il “dato” che si para di fronte a noi con tutta la sua enigmaticità (l’anonima signora seduta nello scompartimento di un treno, di cui gli scrittori naturalisti non avrebbero mai carpito il segreto2) e l’attività conoscitiva che gli gira intorno, come una falena intorno a una fonte di luce, altra immagine chiave di Woolf.
Pensare a un oggetto quando il soggetto della percezione è assente significa pensarlo oltre la dicotomia cartesiana, che è anch’essa una gerarchia, tra soggetto e oggetto, significa decostruire tale gerarchia per fare posto ad altre ontologie. Da una trentina d’anni a questa parte, il mondo intellettuale ha scoperto in sé una passione indomabile per la materia. Gli studi dedicati ai manufatti, agli oggetti, alla cultura materiale nelle scienze sociali, in antropologia, storia, critica letteraria, storia della scienza, storia dell’arte, archeologia sono cresciuti senza sosta: “Oggi – Bill Brown scriveva già nel 2001 – si possono leggere libri sulla matita, sulla chiusura lampo, sul WC, sulla banana, sulla sedia, sulla patata, sulla bombetta”3. Perché? C’è chi ha suggerito che si tratta di una reazione alla “svolta linguistica” del Novecento, la necessità di rimettere i piedi per terra o le mani su qualcosa di un po’ più sostanzioso di una catena di segni o della deriva del significante. Può darsi. Mi sembra più plausibile, però, legare il rinnovato interesse, anzi la rinnovata urgenza nei confronti degli oggetti, delle cose tangibili, a un sentire comune secondo il quale viviamo ormai in un mondo smaterializzato, in cui l’esistenza sensibile non costituisce più condizione di esperienza, in cui l’oggettualità svanisce, lasciando il posto a byte, contenuti, informazioni, realtà virtuale. Traspare, in questo sentire, una fortissima , che è anche nostalgia di un universo analogico (quell’universo in cui, per capirci, un microfono può funzionare come trasduttore perché da qualche parte c’è una membrana che vibra). è il titolo di un pamphlet del filosofo Byung-Chul Han, un’elegia intonata agli oggetti che “sanno ”, mentre “l’ordine digitale il mondo”4. Affrontare il problema di quanta materialità ci sia nell’“ordine digitale” ci porterebbe troppo lontano. Rimane il fatto che il sentire di cui sto parlando è diffuso, per molti versi fondato, e che l’interesse per la cultura materiale sembra soprattutto il sintomo di un senso di perdita o di spaesamento.
In questo contesto – di materialismo o neo-materialismo – giocano un ruolo cruciale un insieme di orientamenti filosofici anche molto diversi ma unificati dalla volontà di mettere in mora la dicotomia cartesiana, nonché la prospettiva kantiana secondo cui – semplificando molto – l’oggetto in sé è inconoscibile e ciò che conta è l’attività del soggetto trascendentale. L’obiettivo è smantellare l’opposizione che separa soggetto e oggetto e, di conseguenza, quella tra vivente e inerte, organico e inorganico, attivo e passivo; ridimensionare il soggetto, spodestarlo dalla sua posizione dominante nel teatro della conoscenza, parificarlo alle cose inanimate. Gli “ibridi” di cui ha parlato Bruno Latour, “quasi-oggetti, perché non occupano la posizione di oggetti prevista per loro dalla Costituzione né quella di soggetti”5, all’incrocio tra natura e cultura. Oppure, per riprendere un altro termine, proposto ancora da Latour e da Jane Bennett, “attanti”, umani o non umani, ha poca importanza, che sono in grado di fare qualcosa, eseguire azioni, produrre effetti, alterare situazioni: “Corpi organici e inorganici, oggetti naturali e culturali – distinzioni per me non salienti – sono tutti capaci di affettare ed essere affetti”6. Ci sono ottime ragioni per questo cambiamento di paradigma, empiriche e politiche. La nozione di una materia “vibrante” (Bennett), o quella di una “simmetria” tra l’umano e il non umano, di una “democrazia allargata alle cose” (Latour), da una parte renderebbero conto di entità complesse che ancora stentiamo a chiamare oggetti, anzi, che stentiamo a nominare, a categorizzare tout court (le folate di metano generate dai rifiuti, i chip, gli embrioni congelati, i simulacri, per fare solo qualche esempio). Dall’altra, concepire la materia come inerte, passiva, completamente strumentalizzata dal soggetto ha sorretto miti quali il progresso e il dominio sulla natura, che hanno mostrato nel tempo tutto il loro carattere nefasto. In modo analogo, il binarismo cartesiano impedirebbe di cogliere l’interconnessione tra animato e inanimato, tra materiale e immateriale, tra cultura e natura, che è la condizione in cui viviamo. Restituire alle cose sarebbe allora una specie di profilassi, un’ecologia politica, come appunto la definisce Bennett.
Un tale mutamento di paradigma non riguarda solo la filosofia o la teoria della scienza. In un fenomeno di convergenza reticolare in cui è difficile – e probabilmente del tutto irrilevante – stabilire chi sia arrivato per primo, anche la percezione e lo studio dei fatti culturali ne sono stati pesantemente investiti. Ciò che Bill Brown ha raccolto sotto il nome di “thing theory” ne è il risultato più evidente: la sua è molto più di una passione per la materialità, piuttosto, una presa di posizione militante della materialità. Come Bennett, Latour e molti altri, Brown punta sul carattere irriducibile (irriducibile a ) della materia, tracciando, sulla scorta di Heidegger, una distinzione tra “oggetto” e “cosa”, dove l’oggetto è materia irreggimentata, già elaborata e disciplinata dal soggetto, mentre la cosa è materia recalcitrante, che non si piega all’atto conoscitivo né al valore d’uso ma oppone a simili pratiche una resistenza, una sottrazione: “Le cose si trovano al di là della griglia dell’intelligibilità allo stesso modo in cui le semplici cose si trovano fuori dalla griglia dell’esposizione museale, fuori dall’ordine degli oggetti”7.
Questo libro prende una strada per molti versi opposta. Intanto, mantiene la dicotomia cartesiana al suo posto, cercando però di coglierne i momenti di rischio, i punti in cui il testo letterario la incrina, la interroga, la disorienta o la sposta, talvolta finge di sospenderla. La mia scelta nasce dalla consapevolezza di un metodologico che anche Jane Bennett ha sottolineato: quella “auto-contraddizione performativa” per cui è sempre un soggetto umano che articola qualunque teoria della materia vibrante, delle cose, della simmetria, dell’ontologia orientata all’oggetto, del ridimensionamento del soggetto e via dicendo8. Una contraddizione che certo si allenta quando si sottopongono a revisione i concetti di materia, vita, azione, volontà, ma che a mio parere – diversamente da quanto sostiene Bennett – non si dissipa.
Il è ancora più stringente nel caso della letteratura, che è una formazione linguistica, un sistema di significazione, una rappresentazione non solo mediata (ogni rappresentazione lo è, da una qualche soggettività intenzionale, da un apparato tecnologico, da una serie di frame culturali), ma presentata come mediata, o mediata a più livelli: autore, narratore, personaggio e, dentro queste tre istanze fondamentali, l’intreccio di voci di cui hanno parlato Bachtin e...