E-Book, Italienisch, 682 Seiten
Reihe: Indi
Minà Fidel
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-566-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Un dialogo lungo tren'anni
E-Book, Italienisch, 682 Seiten
Reihe: Indi
ISBN: 978-88-3389-566-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Era il 1974 quando Gianni Minà incontrò per la prima volta faccia a faccia Fidel Castro, in occasione di un match di boxe all'Avana. Nel tunnel che conduceva agli spogliatoi dei pugili gli rivolse alcune domande, alle quali il líder máximo replicò: «Dovremmo vederci in ufficio, per rispondere a tutto. Siamo in piedi, qui». Qualunque altro giornalista avrebbe considerato quella di Fidel una risposta di cortesia, ma non Minà, che da quel giorno lavorò incessantemente per dare seguito all'invito, fino a ottenere, nel 1987 e di nuovo nel 1990, le due interviste più lunghe mai rilasciate da Castro a un giornalista occidentale. Due autentici scoop, seguiti da altri due incontri, l'ultimo dei quali, nel 2015, un anno prima che Fidel morisse, in occasione della visita di papa Francesco a Cuba. Proposte per la prima volta assieme, queste quattro interviste rappresentano un'occasione unica per riflettere su una Rivoluzione tra le più longeve della storia, al netto sia delle mitizzazioni che delle condanne a priori. Dagli anni della rivolta contro il regime di Fulgencio Batista all'amicizia e al sodalizio con Che Guevara; dall'embargo statunitense e il disastro della Baia dei Porci alla crisi missilistica; dai rapporti con l'Unione Sovietica alla lunga stagione delle riforme economiche; dalla questione dei diritti umani agli scenari post-guerra fredda e al ruolo della Chiesa cattolica come facilitatrice di nuove forme di dialogo, Fidel non si sottrae al confronto, né Minà al compito di porre domande scomode. Ne emerge il ritratto di un uomo complesso e di grande spessore, in grado di far coesistere luci e ombre, e di intuire con grande anticipo i problemi del nuovo millennio.
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INTRODUZIONE ALL’EDIZIONE DEL 1996
Alla fine di un’intervista che ci aveva impegnato per sedici ore, dalle due del pomeriggio di domenica 28 giugno 1987 alle sei del mattino del lunedì seguente, Fidel Castro ha paragonato il lavoro da noi svolto a quello di due operai dell’informazione e ha concluso con ironia: «Non so se questo è un record mondiale, ma sedici ore filate di dialogo con un giornalista televisivo, per quanto mi riguarda, rappresentano un primato almeno dei Caraibi».
Avevamo terminato un’intervista che per la sua vastità e per le rivelazioni politiche che conteneva – specialmente quelle sulle scelte fatte da Che Guevara, che aveva preparato a Cuba non solo l’intervento in Congo del ’65, ma anche la successiva spedizione in Bolivia – sarebbe stata definita storica e sarebbe diventata un reportage televisivo e un libro di successo. Tre anni dopo, caduto il comunismo nei paesi dell’Est, Fidel avrebbe accettato di concedermi un altro incontro per attualizzare i capitoli della politica interna ed estera, ormai superati dai nuovi eventi. Ma quell’aggiornamento, venuto dopo il caso Ochoa (il generale fucilato per narcotraffico), sarebbe diventato un altro libro, che costituisce la seconda parte in questa edizione.
Da Fidel Castro avrei avuto ancora un’intervista nel ’93 – questa volta breve, che avrei pubblicato sull’ – sulla difficoltà di rapporto con molti ex partiti comunisti occidentali, testardamente convinti, con presunzione tutta europea, di poter leggere la drammatica realtà latinoamericana con la stessa logica con la quale interpretavano le tensioni e le trasformazioni del Vecchio Continente.1
A Fidel è sempre piaciuto parlare. Uno degli argomenti preferiti dagli avversari, per mortificare la sua immagine, è presentarlo come un dittatore logorroico che arringa la folla per ore, perché spesso è difficile o inquietante confrontarsi con le sue tesi quasi sempre esposte in modo drastico, definitivo o, come qualcuno sostiene, settario.
D’altronde, è vero, Fidel non si è mai risparmiato nei discorsi pubblici; le sue interviste, invece, sono rare, e quando ne ha concessa qualcuna, l’intervistatore – fra i tanti che lo chiedevano e lo chiedono – è stato sempre scelto in funzione dell’area del mondo alla quale Cuba voleva far sapere qualcosa.
Prima dell’incontro-fiume con la nostra troupe televisiva, Castro si era intrattenuto a lungo solo con Barbara Walters della Abc e con Dan Rather della Nbc, due «guru» dell’informazione negli Usa. E poi nel corso del tempo, con Ignacio Ramonet e il regista nordamericano Oliver Stone. Evidentemente voleva far conoscere le sue idee e le sue considerazioni all’opinione pubblica degli Stati Uniti.
Fidel non si è mai preoccupato delle grottesche menzogne costruite a Miami da una propaganda a cui una volta sembrò addirittura una gran trovata far circolare la voce che a Cuba i bambini venivano strappati alle loro famiglie e trasferiti in Unione Sovietica dove sarebbero diventati dei buoni comunisti.2 Castro sapeva e sa che questo tipo di informazioni viene accolto con ironia nella smaliziata Europa e anche negli Stati Uniti è creduto solo da chi certe cose le vuole credere.
Non ha nemmeno mai risposto, per esempio, alle speculazioni fatte sulle scelte della figlia Alina, nata all’epoca della Rivoluzione, che dopo aver diretto per anni a L’Avana la casa di moda «La Maison» aveva deciso, qualche anno fa, di lasciare il paese prima per la Spagna e poi per gli Stati Uniti, attratta da una vita più agiata. Alina recentemente è arrivata a polemizzare con il padre addirittura con un libro. Penso che Castro non abbia risposto non solo perché la madre di Alina, Nati Revuelta, da sempre militante comunista, non ha voluto seguire la figlia nelle sue scelte, ma anche perché ha voluto tutelare, con la consueta discrezione, la vita privata degli altri suoi sei figli.
Fidel ha sempre evitato anche di rispondere alle provocazioni sulla qualità del suo impegno nel tentativo di tirare fuori Che Guevara dalla Bolivia, dopo il tradimento di Monje e del partito comunista di quel paese che, obbedienti alle nuove strategie dell’Unione Sovietica – ormai contraria alle guerriglie latinoamericane – da un giorno all’altro, nel gennaio del ’67, negarono la già concordata e organizzata assistenza logistica sul territorio, senza la quale nessuna sollevazione popolare sarebbe stata possibile. Castro, in un capitolo della prima intervista, spiega in modo esauriente come, nella situazione creatasi dopo il summit di Gladsboro, che stabiliva di fatto le aree di influenza degli Usa e dell’Unione Sovietica, si fosse trovato solo contro tutti e malgrado ciò avesse tentato fino all’ultimo di salvare il Che, con l’aiuto del movimento operaio e di chi, all’interno del partito, dissideva da Monje. Recentemente la polemica è tornata d’attualità per le dichiarazioni di Régis Debray, intellettuale francese che rinnega il suo passato militante e che è arrivato a sostenere che lo stesso Che Guevara era un masochista e cercava la morte. Ognuno è responsabile delle proprie mediocrità e dei propri rimorsi. Castro ha evitato di ricordare che proprio gli errori di Debray, quando lasciò l’accampamento di Guevara in Bolivia, dove era stato in visita con il pittore argentino Bustos e Roth, che in seguito venne indicato come informatore della Cia, portarono i rangers boliviani sulle tracce di Guevara e del suo sparuto gruppo. A Benigno, uno dei cubani sopravvissuti a quell’epopea del Che, che ha lasciato l’isola sentendosi ignorato per la sua storia passata e che ha scritto un libro di accuse alla Rivoluzione e allo stesso Castro, hanno risposto invece Harry Villegas, detto Pombo, e Urbano Tamayo, due ex ragazzi della Sierra Maestra, alfabetizzati e avviati alla carriera militare dal Che, anch’essi sopravvissuti, come Benigno, all’ultima battaglia, a Quebrada del Juro. Pombo e Urbano hanno sempre dato un’altra versione dei fatti dell’ultimo, drammatico mese in Bolivia, che viene pervicacemente ignorata dai nuovi storici di quell’avventura umana.
Conscio della tendenza a distrarsi che l’informazione occidentale mostra quando vuole sostenere tesi prefabbricate, Castro ha sempre usato la comunicazione con oculatezza. Le sue interviste sono state sempre rilasciate, quindi, soltanto per favorire sviluppi politici che diventerebbero possibili se l’amministrazione americana decidesse di attenuare la sua ostilità verso Cuba. Questa, d’altro canto, è una storia antica. Negli anni delle amministrazioni di Reagan e Bush negli Stati Uniti, il NED (National Endowment for Democracy), un ente che è espressione della Cia, ha sovvenzionato in quasi tutti i paesi europei e del mondo i comitati per i diritti umani a Cuba (in Italia Craxi lo ospitò nella sede di ). Un’operazione di politica «sporca» che non solo sorvolava cinicamente sui milioni di esseri umani annientati in tutte le altre nazioni latinoamericane rette da governi graditi all’Occidente, ma che assolveva violazioni molto più gravi di altri paesi comunisti come la Cina. Ma la Cina è un mercato di un miliardo e duecento milioni di persone che nessun paese occidentale ha mai pensato di poter perdere, anche se gli avversari politici vengono fucilati ancora adesso e in Tibet continua la repressione verso i seguaci del Dalai Lama.
Per questo credo che Cuba sia un nervo scoperto per gli Stati Uniti, non tanto per le scelte ideologiche e politiche, nella sua storia recente, ma per la difesa testarda della sua sovranità, del diritto di scegliere da sola il proprio futuro, forse anche per la sua utopistica sicurezza che non è accettabile l’idea di una America Latina che ha per destino la miseria estrema e l’impossibilità di esistere per la maggior parte dei suoi cittadini. Questo «cattivo esempio» di dignità dato alle altre nazioni del continente, al di là delle sue colpe vere (un certo integralismo, il partito unico, le durezze, anche se ora attenuate, contro alcuni dissidenti, insomma una democrazia incompleta), è il peccato mortale di Cuba, che nemmeno un presidente democratico come Clinton ha saputo, forse per puro calcolo elettorale, perdonare. E così, dopo la legge Torricelli che inaspriva l’embargo verso l’isola, il presidente democratico ha firmato l’assurda legge Helms-Burton, che addirittura, contro ogni diritto internazionale, avrebbe la presunzione di colpire con sanzioni le aziende dei paesi che commerciano con il governo dell’Avana.
Per questo penso che Fidel Castro scelga di volta in volta, fra le innumerevoli richieste di interviste che gli vengono sottoposte, di parlare con giornali e tv dei paesi che, in quel momento storico, vuole sensibilizzare a una problematica che gli sta a cuore. È probabile che Fidel, in quel giugno del 1987, abbia giudicato maturo il momento per dire la sua ai telespettatori europei. Castro sa che per molti europei le informazioni su Cuba sono basate soltanto sulle notizie che vengono dagli Stati Uniti.
D’altro canto, l’errore di fidarsi di notizie su Cuba che sembrano verosimili, ma in realtà sono inventate da agenzie che hanno il compito di costruire una informazione di parte favorevole a chi è alleato degli Stati Uniti e sfavorevole a chi è ritenuto nemico, è un errore nel quale possono incorrere anche giornalisti di valore indiscutibile.
L’argentino Oppenheimer, cronista di punta del , scelse nei primi anni Novanta il titolo per un suo libro di grande valore investigativo su Cuba, che aveva, però, la debolezza di...