Minà | Maradona: «Non sarò mai un uomo comune» | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 179 Seiten

Minà Maradona: «Non sarò mai un uomo comune»

Il calcio al tempo di Diego
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-284-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Il calcio al tempo di Diego

E-Book, Italienisch, 179 Seiten

ISBN: 978-88-3389-284-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Questo libro e? la storia di una lunga amicizia nata nel 1986 quando, ai mondiali di calcio del Messico, Diego Maradona guido? una nazionale argentina tutto sommato modesta alla vittoria. Un'amicizia che si consolido? l'anno successivo - quando il Napoli vinse il primo scudetto della sua storia - e che divenne ancor piu? bella e profonda quando lo stress, alcune dipendenze, ma anche il suo carattere ribelle e refrattario a qualunque regola o convenzione, contribuirono a spingere piu? volte Maradona sull'orlo del baratro. Questo e? il resoconto fedele di quel legame, che Gianni Mina? - da grande giornalista sorretto da un'empatia e indipendenza di giudizio che dovrebbero fare scuola - ci racconta attraverso gli articoli piu? belli che gli ha dedicato nel corso degli anni e tre memorabili incontri-intervista, durante i quali Diego si e? messo a nudo, raccontando le proprie debolezze e la propria visione del calcio e della politica, sempre ammesso che le due sfere siano davvero separabili. Mina? ci regala il ritratto del piu? grande calciatore di tutti i tempi ma soprattutto di un uomo complesso, contraddittorio, onesto fino alla brutalita?.

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PREFAZIONE
QUEL DIAVOLO DI MARADONA


Con Diego Armando Maradona, , ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Italia. Aveva già un manager e un ufficio stampa personali, consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così, fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-85), potei proporre alla , con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse argomenti meno banali.

Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista. La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli, quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il campionato italiano.

La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che – non è un’esagerazione – Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (sette giocatori dell’Inghilterra dribblati in un fazzoletto) e con i due in semifinale contro il Belgio, che esaltarono le sue capacità di equilibrio e di dribbling oltre ogni immaginazione.

Ho una fotografia con Diego sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcárraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione del mondiale. In quell’occasione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente, per il Napoli e per le sue ambizioni, di lottare per lo scudetto nel campionato italiano dove giocava già da due anni.

Era evidentemente un’esigenza dettata dagli ottantamila spettatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuorigrotta ed erano pronti per un riscatto della città. Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da De Napoli e Carnevale, il Napoli allenato da Bianchi vinse lo scudetto, il primo della sua storia, e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale. Tanto che Rai 1 mi chiese a sorpresa di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti nell’Auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto che ho presentato insieme a Lina Sastri e che è rimasta memorabile:

Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo comparve una scritta:
CHE VE SIETE PERSI...

Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la Coppa Italia (1987), una Coppa Uefa (1989) e infine un secondo scudetto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sottrasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidentemente un atto imperdonabile. Purtroppo, però, quelli furono anche gli anni nei quali Diego si perse, e con lui il Napoli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti negativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella vita privata. Conscio di questa situazione, avrebbe voluto accettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, il bizzarro presidente del Marsiglia, ma il diniego del presidente del Napoli Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) l’aveva lasciato disorientato. Così, una mattina all’alba, era andato all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si era sottratto all’assedio mediatico ed economico di cui era ormai prigioniero.

Ho condiviso personalmente la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale sudamericana).

Il 3 luglio 1990, allo stadio napoletano di San Paolo, metà del pubblico tifava per l’Italia e l’altra metà per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale contro l’Italia, e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbracciare al sottopassaggio degli spogliatoi». Fu di parola, anche perché il penalty risolutivo di quella lotteria dei rigori era toccato a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Maradona, ancora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì che mi aspettava, con un sorriso beffardo. I giornalisti argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta dei loro microfoni. Quelli italiani si sentirono solo rispondere: «Ho un appuntamento con Minà». Qualcuno protestò. Intanto il telegiornale chiedeva la linea. Mi fermarono, e allora io suggerii a Maradona di rispondere a due domande del collega Giampiero Galeazzi del Tg1. Poi attesi per avere la disponibilità della saletta. «Non c’è problema, aspettiamo», disse Diego. Non sapeva ancora che cinque giorni dopo l’arbitro messicano Codesal – su sollecitazione, nemmeno tanto nascosta, del presidente brasiliano della Fifa Havelange – gli avrebbe negato la vittoria nella finale, inventandosi un rigore inesistente (tirato da Brehme) e regalando il mondiale alla Germania del commissario tecnico Beckenbauer.

Per Maradona cominciarono gli anni bui. Qualche contratto frutto della sua fama (come con il Siviglia o il Boca Juniors, il club del suo cuore) lo aveva fatto sopravvivere ai suoi incontri con la cocaina. Da questa dipendenza era uscito con un grande sacrificio, curandosi per mesi a Cuba (agli inizi del 2000), dopo un invito personale del presidente Fidel Castro, che aveva spiegato: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi di questo sport è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi». Maradona rimase a Cuba per molte settimane e riuscì a disintossicarsi. Il Comandante Fidel lo andava a trovare spesso. Chiacchieravano molto e mi piace pensare che il suo impegno politico, vivo da tempo, sia maturato in quella stagione difficile. Diego, unico fra i grandi calciatori e atleti, aveva avuto il coraggio di esprimersi su questioni politiche, mettendo anche la faccia in eventi mondiali. Uno di questi era stata la carovana da Buenos Aires a Mar del Plata nel 2005 contro l’Alca, il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano imporre a tutto il continente. In contrapposizione c’era l’Alba, la neonata associazione dei governi progressisti latinoamericani, ideata dal presidente venezuelano Hugo Chávez assieme a Fidel Castro, ma appoggiata anche da altri leader come il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales e da intellettuali come il premio Nobel per la pace, l’argentino Adolfo Pérez Esquivel, e per finire il cantautore cubano Silvio Rodríguez. Fu probabilmente quella famosa manifestazione, nata in opposizione al presidente nordamericano George W. Bush, a ribadire l’incomunicabilità fra il campione e gli Stati Uniti.

Dieci anni prima, nel 1994, Diego era stato sospeso senza possibilità di difesa dal mondiale americano, ufficialmente per aver fatto uso di una pastiglia a base di efedrina, maldestramente assunta per curare un’influenza. Il presidente dell’Afa, la Federazione calcio argentina, Grondona, non si era affannato nemmeno a farsi carico della sua difesa, ritirandolo dalla competizione e togliendo quindi agli Stati Uniti l’imbarazzo di dover anche giudicare il campione che già avevano tentato di estromettere alla vigilia della manifestazione perché pubblico consumatore di cocaina. Un atteggiamento fariseo, considerato che gli Stati Uniti hanno più di dieci milioni di consumatori e sono i massimi importatori mondiali di questa droga.

L’odissea di Maradona con la cocaina finirà nel 2005, con un intervento chirurgico in Colombia di by-pass gastrico per la riduzione dello stomaco che gli farà perdere più di quaranta chili.

È palese che il più grande calciatore mai nato sia stato un uomo complesso, che spesso non ha saputo sbarazzarsi dei suoi sfruttatori e allontanarsi dal contraddittorio mondo dell’industria del calcio.

Nel 2010, per esempio, dopo i suoi anni più burrascosi, fu chiamato a svolgere l’incarico di commissario tecnico della nazionale argentina ai mondiali sudafricani. Era palesemente un risarcimento. Diego arrivò ai quarti di finale con la squadra che dirigeva, buona ma non eccezionale, malgrado giovani talenti in maturazione come Messi, Di María, Mascherano e suo genero Agüero. Perse contro la Germania (arrivata poi terza nel mondiale vinto dalla Spagna del tiki-taka), ma invece di elogiarlo i saccenti giornalisti italiani ed europei del settore l’avevano riempito nuovamente di stucchevoli critiche e di insulti. Non solo: per quasi trent’anni Equitalia l’aveva perseguitato per frode fiscale chiedendogli una cifra che era aumentata ogni anno (per mora, interessi di mora e sanzioni) fino a rasentare i quaranta milioni di euro. L’agenzia testardamente non aveva accettato l’idea che Diego potesse avere un doppio contratto, uno come calciatore e uno come testimonial pubblicitario, non diversamente dai suoi compagni di squadra, i brasiliani Careca e...



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