Molendini | Pepito | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 217 Seiten

Reihe: minimum fax musica

Molendini Pepito

Il principe del jazz
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-422-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Il principe del jazz

E-Book, Italienisch, 217 Seiten

Reihe: minimum fax musica

ISBN: 978-88-3389-422-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Questo libro racconta l'incredibile e affascinante storia del principe Pepito Pignatelli, batterista e appassionato di jazz, del mondo che gli ruotava attorno e che in larga parte è coinciso con la Roma della Dolce vita, e delle sue mille, folli imprese per portare nella capitale la musica che considerava la più bella del mondo. Il suo cahier nobiliare lo teneva quasi nascosto, scritto su una mattonella di ceramica appesa nella piccola cucina dell'attico di via della Lungaretta 97 in cui ha vissuto per vent'anni. Nato in Messico da un padre donnaiolo e dissipatore, cresciuto nella Roma del fascismo, innamoratosi del jazz in giovanissima età, al punto da assordare con i suoi assoli di batteria i padri gesuiti del prestigioso collegio dove era stato spedito a studiare, Pepito Pignatelli è un personaggio leggendario: a vent'anni ha fondato il Mario's Bar, primo jazz club italiano; ancora giovanissimo ha conosciuto il carcere per una scapestrata vicenda di droga; dagli anni Cinquanta ha animato le notti dei locali più celebri, tra via Veneto e Trastevere; si è coperto di debiti pur di tenere in vita il Blue Note e il Music Inn, due locali che hanno fatto la storia; ha conosciuto, ospitato, accompagnato nei loro giorni romani maestri come Chet Baker, Gato Barbieri, Dexter Gordon. Un imperdibile affresco della Roma degli anni Sessanta e Settanta condotto attraverso la biografia in note di un suo grandissimo protagonista.

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IL FRUTTAROLO, L’IMBUCATA E LE NOTTI DA BRICKTOP


Il Mario’s bar è costretto a chiudere, nonostante il successo, dopo due sole stagioni. Cametti muore all’improvviso: impossibile andare avanti, il locale è intestato a lui. La rabbia e la delusione si mescolano a un senso d’orgoglio: «Ahò! Quello è stato il primo jazz club italiano e l’ho aperto io», rivendica Pepito. Ha compiuto vent’anni da due mesi e l’esperienza segna in modo indelebile la sua vita, altrimenti senza direzione. Diventa il progetto, l’ossessione che non lo abbandonerà mai, l’idea fissa di avere un altro posto suo dove far suonare e suonare la musica che ama. Intanto, dopo le serate, i concerti, le jam al Mario’s, da giovane batterista di belle speranze è diventato una sorta di professionista attivo, disponibile per ogni occasione in cui c’è spazio per il jazz. E lo spazio e le opportunità tendono a moltiplicarsi. Sono gli anni dell’esplosione del night, luogo dove si mescolano in ordine sparso divertimento, musica, trasgressione e voglia condivisa di novità.

All’inizio di via Veneto, al numero 13, a due passi da piazza Barberini, Lino Cruciani, conosciuto come «Er fruttarolo per via dei banchi di verdura che ha nella zona»,21 apre la Rupe Tarpea, il più kitsch dei ritrovi, che non fa sconti ai luoghi comuni sull’antica Roma, dai muri rosso pompeiano ai frammenti marmorei, alle finte iscrizioni latine. All’interno della Rupe c’è un club nel club, il Jicky, «roccaforte dei vitaioli nottambuli», così scrive Galeazzo Benti,22 «gestita dal dinamico Cruciani, specialista nel fare entrare tanta di quella gente che alla fine non si balla più e l’atmosfera diventa quella di un sottomarino inchiodato nel fondo da una settimana».

Er fruttarolo si fa convincere facilmente a mettere in cartellone gruppi di jazz, pur non sapendo bene a cosa vada incontro. Scrittura il chitarrista gitano Django Reinhardt e il violinista Stéphane Grappelli, ovvero i leader del celebrato quintetto dell’Hot Club de France, il primo complesso europeo di valore mondiale. Gran nottata mondana, in platea Anna Magnani, Dado Ruspoli, Porfirio Rubirosa. Tra il pubblico ci sono molti appassionati ma anche chi ha voglia di ballare i ritmi latinoamericani di moda a quel tempo23 e non prova alcun interesse verso una musica solo da ascoltare. C’è chi entra, sente i virtuosismi dei due jazzisti francesi, non si toglie neppure il cappotto, scrolla le spalle e se ne va. C’è anche chi reagisce malamente: «A un certo punto, un tipo completamente fori de testa scaja ’na scarpa sul palco. Stéphane, abituato a tutto, nun fa ’na piega e continua a sonà mentre la scarpa se la inguatta qualcuno e quel deficiente che l’ha lanciata viene accompagnato alla porta semiscalzo». Pepito c’era, ovviamente, quella sera al Jicky: «Certo che ce so’ annato. Grappelli, ’na persona molto carina, era amico de mi’ padre e, quando era a Roma, veniva sempre a trovarci a casa». Un altro night, a Trinità dei Monti davanti all’hotel Hassler, Le Pleiadi, si rivolge allo stesso pubblico fatto di appassionati, generone e polvere di nobiltà che ha animato il Mario’s. E non è l’unico.

Un esperimento più sofisticato è il club di via Veneto I Nottambuli, teatro cabaret aperto a ogni proposta artistica: due saloni a piano terra, nel palazzone allora dell’IRI disegnato da Piacentini, arredati con le opere di Mafai, Turcato, Monachesi, Scialoja, Vespignani. A lanciarlo sono il grande drammaturgo e regista di teatro Alessandro Fersen, l’artista e musicologo Walter Cantatore e lo scenografo Emanuele Luzzati. L’intento è intercettare con spirito d’avanguardia le novità del momento. Si spazia senza orario dal teatro di Beckett e Ionesco al cinema, a spettacoli di mimo, a discussioni sugli avvenimenti della politica e della cronaca, e in tutto questo fermento riesce a imbucarsi anche il jazz. Almeno fino a quando un intervento della polizia non mette i sigilli a quella bottega d’arte priva di licenza per i superalcolici.

«Se c’è da sonà per me va sempre bene», risponde Pepito quando Carlo Loffredo, contrabbassista e attivissimo agitatore musicale con l’abilità di intrufolarsi ovunque, gli propone una serata ai Nottambuli. Come sempre arriva in giacca e cravatta assieme alla sua batteria: «Ce presentiamo con un quintetto fortissimo: ce stanno Carlo Pes alla chitarra, Mal Keller, un americano che a quei tempi s’era trasferito a Roma, al clarinetto, e al piano Umberto Cesari, che ancora non s’è sprangato a casa e te fa uscì de testa per come sona. Camminiamo come treni. Ma nun ce se filano proprio».

Occhi fulminanti, baffi e pizzo alla Italo Balbo, sedotto dall’audacia e guidato dalla forza dell’istinto, Umberto Cesari è un post-futurista. Pilota di aerei, di auto e moto, pittore, spiritista: durante le sedute medianiche invoca i suoi idoli pianistici come Fats Waller, l’esilarante autore di «Ain’t misbehavin’» e di tanti altri splendidi pezzi. Sfuggente meteora del jazz degli anni Cinquanta, Cesari viene visto da pochi, ascoltato da non molti di più. Il suo mistero, il suo estro, la sua vena di raccontatore di storie mirabolanti, nel suo nascondersi, fanno scaturire fantasie e aneddoti.

Nei ricordi di Pepito, Umberto appare sempre accompagnato da una nota di rammarico, perché una volta gli ha soffiato l’amicizia di una graziosissima ragazza, Gaia Germani. Eppure gli sarebbe piaciuto averlo nei suoi club: «Gliel’ho chiesto un mijardo de vorte, a quello scornacchiato». Sforzo inutile, nonostante la comune passione, gli svariati concerti fatti assieme, le jam session con solisti americani di passaggio come Zoot Sims e Roy Eldridge e alcuni programmi radiofonici con Nunzio Rotondo.

Il pianista è ostaggio di un’ossessione: una psicosi che via via si trasforma in agorafobia, in paura di trovarsi all’esterno, somma di paure e traumi personali, compreso lo shock di quando, durante la guerra, i tedeschi lo avevano messo al muro col cugino e volevano fucilarlo. All’ultimo, per fortuna, arrivò il contrordine: si era trattato di uno scambio di persona. Così, chi vuole ascoltarlo deve andare da lui, in una stanza «completamente tappezzata di cartoni, scatole di ondulato appiattite al muro, collage di auto da corsa, foto di motociclette in curva a 250 all’ora. Soprattutto cartoni (quelli usati per l’imballo delle uova) usati come pannelli fonoassorbenti».24

Nelle notti degli anni Cinquanta, Cesari resta un tipo fuori dal coro, come carattere ma anche come musicista,25 lontano dallo stile della Roman New Orleans, semplice e capace di attirare sia il mondo indistinto dei frequentatori dei locali che i veri jazzofili. I veri jazzofili di quel tempo sono un popolo ristretto e battagliero, animati tutti da sacro entusiasmo, perfino con l’orgoglio che deriva dall’esser pochi. Sono capaci di dividersi ferocemente fra tradizionalisti e modernisti, pronti ad accusarsi reciprocamente di non essere veri fan del jazz: la peggiore delle offese. Litigano, ma fanno clan. Come succede in altre città, fondano l’Hot Club di Roma nel ’46: un salotto dove confrontarsi, scambiare le ultime notizie, ascoltare dischi, organizzare serate, accapigliarsi. Loffredo è il giovanissimo e attivissimo primo segretario, e fra i ventisette soci ci sono Peppino D’Intino, il batterista della Roman; l’architetto e designer Fabio De Sanctis; Mario Natale, destinato a diventare un importante press agent del cinema; il pianista Piero Piccioni; il futuro discografico Vincenzo Micocci, l’inventore dei cantautori italiani; il giornalista e avvocato Roberto Capasso, sfegatato sostenitore del be bop.26

Il resto del pubblico che, in qualche modo, segue il jazz appartiene a quel pastone fatto di mondanità varia e generone in ascesa, un campionario umano che contribuisce allegramente a dar vita a un glamour condito da un’americanizzazione diffusa, secondo il modello vincente importato dal cinema: e così vanno di gran moda il night, il bar, il whisky, il brandy, il sandwich, il latin lover, le pin up, il picnic, il chewing gum, il flipper, e al cameriere si ordina un drink al posto dell’aperitivo. L’America è il sogno e il jazz fa America, è il ritmo della modernità.

L’atmosfera esuberante è alimentata dal richiamo turistico dell’Anno Santo del 1950, dalla nascita della Rca, che gli americani costruiscono su invito esplicito di papa Pio XII, il quale aveva chiesto di fondare una fabbrica nella periferia della Capitale,27 e dal massiccio sbarco a Cinecittà della cosidetta Hollywood sul Tevere. Il primo set è quello di un film di cappa e spada, , protagonisti Tyrone Power e Orson Welles. L’esplosione avviene con , con Robert Taylor e Deborah Kerr; il trionfo definitivo con , con Audrey Hepburn, Gregory Peck e la sua Vespa, vero manifesto della rinascita.

A dare un tocco internazionale si aggiunge un pezzo di Harlem, il club di Ada Beatrice Queen Victoria Louise Virginia Smith. Si fa chiamare sinteticamente Bricktop, ed è accompagnata da un passato eccentrico: vivacissima ballerina, cantante, attrice di vaudeville, soprattutto animatrice della vita notturna del jet set internazionale. Si presenta così, Bricktop, coi suoi capelli rosso mattone e un sigaro perennemente in bocca: «Non sono una cantante, sono un personaggio. Nessuno viene per ascoltarmi, ma per vedermi». Nei suoi locali si sono divertiti e ubriacati Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck. Si vanta di aver insegnato il charleston al Duca di...



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