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E-Book

E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Cronache

Molinari Stanze

Abitare il desiderio
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-124-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Abitare il desiderio

E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 979-12-5480-124-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Che impatto hanno avuto l'industrializzazione, l'urbanizzazione, la cura dell'igiene, la nascita del design nel codificare le stanze delle case che abitiamo oggi? Cosa implica varcare una soglia, entrare in una camera? Il boudoir, l'antico salottino per signore in cui il Marchese de Sade ambienta uno dei suoi testi di maggior successo, quale significato politico può assumere? E che rapporto c'è tra la cucina come emblema della sottomissione femminile e la cucina come teatro di liberazione ed emancipazione della donna? O, ancora: qual è la valenza metaforica della cantina e come cambia nel corso della vita il modo di vivere questo spazio? Dopo Le case che siamo, Luca Molinari si addentra nella specificità delle stanze che compongono oggi le nostre case. Con la precisione del fine studioso e la passione del grande divulgatore ripercorre e analizza storia e funzioni, simbolismo e potenzialità di ciascuno degli ambienti che ci ritroviamo quotidianamente ad attraversare: dall'ingresso allo studiolo/biblioteca, passando per il bagno e la cabina armadio, la cucina e la camera da letto, fino ad arrivare al monolocale, che concentra tutte le stanze in una. E stanza dopo stanza, questo racconto intimo cerca di intuire a partire dal presente le linee che plasmeranno il futuro dei nostri ambienti domestici. Stanze ci porta a guardare in modo nuovo a spazi che spesso viviamo distrattamente e che invece così tanto raccontano di noi e così tanto influiscono sulle nostre vite.

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Intro
La casa e le stanze


All’inizio del nuovo secolo, nel cuore di un quartiere centrale di Tokyo chiamato Ota-Ku, il signor Moriyama ha chiesto all’architetto Ryue Nishizawa di progettare una nuova casa per lui. Il lotto su cui costruire era sufficientemente grande e tutt’intorno si affastellavano centinaia di piccole casette in legno, di quelle che spesso vediamo nei manga di Jiro Taniguchi, dove ogni abitazione, posta in una lunga sequenza intervallata da vie strette e pali della luce carichi di cavi elettrici, parla per sé.

La richiesta è particolare: abbattere la vecchia casa dove aveva abitato con la madre appena scomparsa e avere un’abitazione per sé e insieme spazi autonomi da poter affittare insieme a un piccolo giardino al piano terra. La proposta di Nishizawa, uno degli architetti più sofisticati e immaginifici della scena contemporanea, è spiazzante: “Tu non hai bisogno di una nuova casa, ma di un piccolo villaggio nel mezzo di una foresta”.

La casa viene così frantumata in sei unità distinte, di dimensioni e altezze differenti, che compongono un piccolo mondo di edifici scatolari, tutti in intonaco bianco e tagliati da ampie finestre, la cui disposizione ritaglia dei microgiardini e delle zone di passaggio che consentono ai suoi abitanti di scegliere lo spazio aperto in cui stare. Un blocco, quello più alto, è abitato dal padrone di casa, mentre gli altri cinque volumi, tutti dotati di servizi, cucina e altri spazi necessari, sono destinati all’affitto, ma lasciando aperta la possibilità che la proprietà si allarghi anche alle altre stanze, a seconda delle esigenze.

La prima volta che ho visto le immagini di questo progetto, ormai divenuto famosissimo e meta di viaggio per molti amanti dell’architettura, sono rimasto spiazzato. Dov’è l’ingresso? Com’è possibile che non ci sia un muro perimetrale che definisce un interno e un esterno? Quindi, se cammino per strada, posso entrare anch’io nel giardino e guardare nelle diverse case? Ma se piove come faccio ad andare in bagno o in un’altra stanza?

Dopo pochi anni mi sono imbattuto in un film del duo Bêka & Lemoine intitolato , nel quale vengono raccontati sette giorni all’interno di questa abitazione. Nel film ogni spazio è colonizzato e insieme amichevolmente invaso da elementi naturali. Ogni angolo è abitato con grazia e lentezza, e il racconto di questo microcosmo – tra scorci, piccoli oggetti, gesti misurati – sembra dilatarsi all’infinito, offrendoci l’immagine di un’abitazione nuova per il nostro tempo e insieme densamente vissuta. Tutto è paesaggio a comporre un’unica identità, vero autoritratto del suo proprietario.

La pianta della casa, composta elegantemente da sei volumi collegati da giardinetti e passaggi, e dalla sezione così variata e frammentata, offre l’immagine di una casa esplosa – ma ordinatamente – in cui ogni funzione dell’abitazione aveva acquisito la dignità di diventare un corpo singolo.

Per la prima volta l’idea di casa come “macchina per abitare” si mostra in ogni sua parte, ma nel far questo evapora. Il vuoto tra i singoli elementi funge da collante, dilatato da aperture così ampie da costruire relazioni visive inattese. La casa non è più separata dalla strada, ma si fonde con essa, trasformando questo microarcipelago in un universo in cui la distinzione tra pubblico e privato è inesorabilmente rimescolata.

Ci sono progetti di architettura che hanno il potere di rendere abitabile e visibile un tempo nuovo o in profonda trasformazione. Si tratta del combinato composito tra l’intuizione di un progettista e la visionarietà del committente. L’uno non esiste senza l’altro, perché i due desideri, quello di abitare differentemente e quello di dare forma a visioni inedite, si combinano magicamente, al punto che la nuova opera diventa in breve tempo un classico, ovvero qualcosa che riconosciamo come parte di noi e come rappresentazione di un tempo specifico.

possiede la semplicità spiazzante che racconta un tempo da abitare in maniera differente. È come una villa delle bambole ottocentesca, pensata per essere osservata in sezione, mostrando in sincrono tutti gli ambienti della casa, che diventa un paesaggio fluido e abitabile. È come se Gordon Matta-Clark, che segava parti di abitazioni unifamiliari nordamericane per poi esporle nei musei come frammenti della nostra storia, avesse invece separato i diversi ambienti di un unico fabbricato, rimontandoli poi a terra distanziati tra loro e lasciando che venissero attraversati e abitati da un diverso nucleo di persone.

Lungo tutto il Novecento una serie di importanti architetti ha realizzato case-tipo, prototipi da visitare nelle grandi fiere o in mostra, ideati per spiegare ai visitatori come sarebbero state le abitazioni del futuro.

La storia dell’architettura è costellata da queste case-manifesto, immaginate per farci sognare e per promuovere un mercato sempre più avanzato, meccanizzato e sofisticato nella produzione di ogni tipo di oggetto e componente.

La , però, è una casa reale, un manufatto creato per essere abitato sempre. Non è pensata per essere un manifesto, ma per risolvere una necessità: quella di avere una propria abitazione e, insieme, affittare il resto ad altre persone senza necessariamente separarsi visivamente dalla loro presenza, godendo, con tutti i pro e contro, dell’idea di una comunità fluida e mutevole che accompagna la nostra esistenza.

Oltre a questo, la ha il potere di rendere evidente l’immagine della casa come somma di stanze, esplodendo fisicamente un modello che appare immutabile e compatto, come se un bambino avesse lanciato sul tappeto di casa altrettanti cubetti di forme e colori differenti dando vita a un villaggio temporaneo e instabile pronto a ridefinirsi a ogni cambio di umore. Quel volume simbolico che vede le diverse stanze comporre un corpo solido e definitivo – ciò che nominiamo “casa” – diventa un paesaggio fisico e mentale in cui avventurarsi, da cui guardare ed essere osservati, moltiplicando i punti di vista e le sensazioni come se fossimo in una galleria degli specchi al luna park.

Il modello della casa non è mai assoluto e si presta a continue modificazioni e cambi ripetuti a seconda del tempo, della cultura e delle necessità.

All’inizio della nostra storia c’è la tenda, rettangolare, circolare, poliedrica o triangolare che sia, ma sempre un perimetro di pelle, tessuto o canapa intrecciata che separa un interno dal mondo esterno.

L’interno appare come un universo compresso che puoi contenere in un solo sguardo, malgrado molte tende possano avere dimensioni anche importanti e accogliere più componenti di uno stesso clan. Al centro troviamo sempre il fuoco, ben protetto e costantemente ravvivato, mentre intorno gli arredi e i diversi oggetti cambiano posizione a seconda delle necessità e del momento della giornata. I giacigli si arrotolano, i piatti e le pentole si spostano, il cibo viene ben protetto, i giochi dei bambini si muovono tra dentro e fuori, i tappeti stanno a terra a garantire calore e pulizia, i pochi abiti sono conservati in alcuni bauli ben costruiti. Il paesaggio mutevole della tenda appare come quello delle nostre case ma con una grande differenza: la quasi assenza di pareti interne.

Lo studioso Joseph Rykwert, nel suo prodigioso libro , parlando della prima casa e dei nomadi cita una frase del teorico tedesco Gottfried Semper, che definisce il senso originario dell’idea di limite interno: “Se gli influssi climatici e altre circostanze bastano a spiegare questo fenomeno della storia della cultura, e anche se esso non risulta necessariamente una regola universalmente valida dello sviluppo della civiltà, resta nondimeno vero che gli inizi del costruire coincidono con quelli della tessitura. […] Quale prima parete divisoria fatta con le mani, che è, insieme, la prima divisione verticale inventata dall’uomo ci piacerebbe riconoscere la barriera, la staccionata fatta di pali e di rami piantati nel suolo e legati insieme, a innalzare la quale occorre la tecnica che la Natura offre all’uomo. Il passaggio dall’intrecciare rami all’intrecciare canapa per analoghi scopi domestici è facile e naturale”.

Mi piace immaginare che le prime pareti interne di queste abitazioni nomadi e temporanee fossero composte di canapa intrecciata, facile da arrotolare e trasportare, oppure di tessuto, alcune volte di una fibra pesante e resistente, altre di peso leggero, semitrasparente.

L’inserimento di questi filtri non mutava l’essenza fluida del luogo ma giocava con sottigliezza sulla possibilità di definire ambiti più riservati e protetti, forse legati alla presenza femminile o a dimensioni rituali che chiedevano una maggiore intimità. Probabilmente questi setti definivano una progressione dei luoghi che dal pubblico portava all’area più personale e privata, anticipando il modo in cui sono state poi realizzate le case in tutto il mondo.

Costruire muri comporta sempre la possibilità di moltiplicare i punti di vista e di generare percorsi e sequenze che sono sia funzionali che simbolici.

Lo spazio senza pareti, prima di essere considerato una conquista di assoluta libertà, era il luogo del massimo...



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