E-Book, Italienisch, 252 Seiten
Reihe: Narrativa
Morandini La conca buia
1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-086-7
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 252 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 979-12-5480-086-7
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
è nato ad Aosta nel 1960. Si è dedicato a racconti e romanzi in cui ha esplorato i confini tra reale e fantastico e sperimentato il connubio tra forme e generi differenti. Tra i titoli più recenti si ricordano Le maschere di Pocacosa (Salani, 2018) e, per Bompiani, Gli oscillanti (2019), Neve, cane, piede (nuova edizione, 2021) e Catalogo dei silenzi e delle attese (2022). Diversi suoi libri sono stati tradotti e premiati. Nel 2023, nel corso della ventiseiesima edizione di Cinemambiente, gli è stato attribuito il premio Le Ghiande per l'attenzione alle tematiche ambientali presente nell'insieme della sua opera.
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I
Le botte che mi dava mio padre, senza che sapessi perché. Mi rincorreva a lungo, in silenzio, finché non mi afferrava i capelli sulla nuca o, con uno slancio, le caviglie (le sue gambe, per quanto storte, erano più leste delle mie): allora mi atterrava, e con metodo e ritmo uniforme mi percuoteva a lungo, sempre in silenzio, con l’espressione di un mulo. Botte, botte ovunque, a mano aperta, sonore e pungenti, o a pugno chiuso, sorde e cupe, o pizzichi brucianti, o certe martellate in punta di dita che sembravano volermi entrare nelle carni. Niente graffi: quando era ragazzo una misteriosa malattia gli aveva portato via tutte le unghie. Ma talvolta, quando l’ira era tale da deformargli i lineamenti, morsi cagneschi, con i denti che gli rimanevano.
Giungeva la mamma, asciugandosi le mani nel grembiule, strillante, e gli si buttava addosso per separarci. Lui allora si volgeva contro di lei, e continuava a menare colpi, mentre io strisciavo via, grato di quell’intervento ma incapace sul momento di difenderla a mia volta. Mi nascondevo dietro un albero e da lì osservavo le braccia di mio padre – tuo nonno – che si abbattevano sulla schiena o sulla pancia della mia soccorritrice finché qualcosa (un nodo di tosse, l’arrivo di qualcuno, o la stanchezza, o un pensiero) non lo distraeva.
Si tirava su, allora. Restava a guardare la mamma a terra. Poi allungava un braccio, e la aiutava a levarsi.
Spesso ci si picchiava nel cortile, o dietro casa, nei prati dove pascolavano le vacche. Venivamo via ricoperti di letame, sputando strame e sterco, e a manate cercavamo di tirarci via un po’ di schifo dagli abiti. L’odore viscoso dello sterco lo avrei collegato poi sempre al dolore delle botte, e sempre, tornando alle montagne e respirandovi quel sentore di vacca sporca, avrei avuta ben chiara l’immagine controluce di mio padre chino su di me, ottuso ed ermetico, che mi puniva a schiaffi e pugni per qualcosa che non sapevo.
Non ero l’unico a buscarle. Come ho già detto, anche tua nonna – mia madre – era spesso vittima delle ire del marito, soprattutto la notte, quando i litigi scoppiavano feroci e misteriosi nel loro stanzone – io dormivo su una branda in cucina. Gli strilli della mamma mi svegliavano di colpo, e mi riempivano di un’angoscia nera. Invece di accorrere a salvarla o almeno ad accertarmi di quello che le stava accadendo, come sentivo che avrei dovuto fare, mi avvoltolavo ancor più nella coperta, cacciato sotto da urla e colpi alla parete. Mio padre non urlava mai, quelle voci erano di mia madre sola, ed erano preghiere sovracute, lunghi lamenti, improvvisi singulti ritmati dalle botte.
Mio padre la scacciava quasi subito dal letto, e la buttava fuori dalla camera, a calci e spintoni. Quando questo accadeva, la mamma poteva dirsi fortunata, perché invece altre volte l’ira dell’uomo non sbolliva in quel modo: allora lei veniva trascinata fino alla porta di casa e respinta nell’aia, anche nel gelo del pieno inverno, e lasciata lì, raggomitolata a terra, nella neve o nel fango ghiacciato, a tremare. Lui a quel punto afferrava la prima creatura che gli capitava a tiro, e se non ne trovava andava a cercarsela nella stalla o nei recinti. Il più delle volte ne veniva via con una capra, che conduceva a strattoni in casa e si portava nel letto, al posto della mamma, come segno di grandissimo spregio.
Una volta che era corso invano dietro a capre non disposte a finire sotto le coperte, entrò in stalla e ne tirò fuori una vacca, nemmeno tra le più giovani e piccole. La vacca, stupidamente docile, si lasciò guidare in casa e portare in camera, dove mio padre imprecando la spinse fin sul letto. La bestia prima tentò di rimanere in equilibrio sul materasso, poi capì che era meglio accucciarsi e si lasciò cadere proprio al centro, accanto a lui, che con ostinazione cieca si stava mettendo a dormire. Il tonfo fece tracollare l’intelaiatura del letto, che si sfracellò con uno schianto e provocò altre bestemmie del mio vecchio, ululati di spavento della vacca, e la fuga di questa per tutta la casa, dove rovesciò ogni cosa e per la paura smerdò ogni angolo, prima di aprire la porta a cornate e scappare fuori.
Io, intanto, uscivo ad aiutare mia madre, ma in silenzio, perché non conoscevo parole adatte per consolarla del dolore e del disonore. La abbracciavo e cercavo di proteggerla dal freddo con uno scialle asciutto. Quando supponevo che mio padre si fosse addormentato, la facevo entrare e la ospitavo nella mia branda, dove lei mi stringeva con imbarazzo, e con uguale imbarazzo io mi lasciavo stringere e bagnare di lacrime.
Quando ti racconto episodi come questo, tu ascolti fino in fondo per educazione, ma non rinunci a esprimere una tua perplessità, anche solo con l’inarcarsi di un sopracciglio. Pensi che io esageri, che mi diverta a enfatizzare gesti, momenti, effetti, per motivi miei.
“Nessuno, papà, può essere così feroce,” commenti.
“Tuo nonno ci riusciva benissimo, Leda,” replico, “e lo farebbe anche oggi, se ne avesse la forza”.
“Il nonno. Non ci credo”.
“Il nonno, sì”.
Intercetti un segno di sofferenza, in me – un torcersi delle dita intrecciate, una ruga verticale disegnata in mezzo alla fronte, un tremolio delle labbra – e a quel punto avverti che non sto mentendo per il gusto di provocarti e giocare con il tuo senso morale o con l’affetto che provi per il nonno. Papà starà esagerando, continui a pensare, ma non mi sta raccontando balle.
“Con me il nonno è sempre buono,” opponi ancora, come argomento estremo.
“L’ho notato. Va’ a sapere perché”.
Se io, nell’esercizio della mia funzione di padre, non ti ho mai toccata – per punirti, intendo –, la ragione sta tutta, banalmente, in quegli episodi lontani della mia infanzia. Non che mi sia dovuto trattenere, con te: eri giudiziosa e meditativa sin nella culla, guardavi le cose con l’aria di volerne cavare un senso già prima di imparare a parlare. Non ti avrei mai allungato uno scappellotto, nemmeno avrei abbozzato il gesto, nemmeno ti avrei minacciata agitandoti un dito davanti al naso.
Tutti i giovedì noi bambini della vallata scendevamo a Meregliano per andare a catechismo da don Breccia, l’anziano parroco spettinato che scriveva melense poesie in dialetto e spesso ci incoraggiava con lunghe carezze. A me, che ero abituato alle legnate di mio padre, quei gesti di affetto parevano consolanti, li aspettavo con impazienza e li cercavo, levando la manina a rispondere a tutte le domande del prete; il quale per premio mi stendeva sul viso le mani odorose di una mistura di sudore e tabacco, e mi diceva: “Bravo, bravo”, facendomi gongolare.
Aveva gli occhi vitrei e umorosi, un naso sferico, e secondo alcuni sapeva di muffa, come se la sera in canonica si facesse chiudere dentro un armadio o una madia; ma io, che vivevo tra le vacche ed ero abituato alla puzza di sterco che mio padre agitava attorno a sé, non sentivo nulla, solo le sue mani, che per contrasto mi sembravano profumate.
Ogni tanto don Breccia ci accompagnava a giocare al pallone fuori della canonica, in un campetto in discesa, con un’unica porta piazzata nella zona più alta. Stavo spesso in porta, lassù, solitario, oscillante, in attesa che arrancassero fino a me le due squadrette dietro alla palla. Mi lanciavo sull’erba, per parare, e mi sembrava di compiere balzi lunghissimi, e di atterrare felinamente. Ma se ora penso a come i miei amici, durante e dopo la partita, mi deridevano dandomi del cretino e scimmiottandomi in goffe cadute rovinose, sospetto che quei miei exploit non assomigliassero affatto alle parate atletiche che vedevo nelle fotografie dei giornaletti in parrocchia.
Don Breccia veniva poi, a partita terminata, a spulciarci dalla terra, dall’erba, dalle lappole e dalle spighette che risalivano su per le maniche e ci penetravano fino in bocca. Ci ripuliva con lunghe, lente manate, e intanto ci rimbrottava dolcemente, con un tono simile a quello della mamma quando mi tirava fuori dalla tinozza in cui, una volta al mese, facevo il bagno.
Talvolta il parroco saliva fin su alla baita, a bere un bicchiere con tuo nonno. Lo vedevamo avvicinarsi a piccoli passi estenuati, lo sguardo a terra, la tonaca nera sopra e grigia di polvere dalla cintola in giù, le mani serrate dietro la schiena. Papà, quando lo scorgeva, ringhiava un’imprecazione, ma diventava subito docile, quasi servizievole al momento di accoglierlo in casa, e anche per questo vedere quel prete era per me una festa.
Don Breccia mi salutava, ma senza accarezzarmi come faceva di solito: talvolta si limitava a un sorriso, talvolta si protendeva per un buffetto prudente sulla guancia, o una scapigliata in testa, lesta e come distratta. “Franchino, Franchino,” scherzava ogni tanto, come per rimproverarmi di una misteriosa marachella. Poi si appartava con mio padre, nel buio della cucina, dove sedevano soli, ai due lati del tavolo. Mia madre passava dall’uno all’altro, a riempire i bicchieri che entrambi stringevano come se temessero di vederli scivolare via. Loro bevevano, dicevano qualche parola sottovoce, talvolta scuotevano il capo. In quelle circostanze mio padre mi pareva più piccolo, più basso. Di sicuro stava più curvo: e le sue braccia, che spesso si allungavano addosso a me come zampe di lupo, ora erano tenute strette al costato, e sembravano corte della metà,...