E-Book, Italienisch, 509 Seiten
Morin L'uomo e la morte
1. Auflage 2021
ISBN: 979-12-5982-022-8
Verlag: Il Margine
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 509 Seiten
            ISBN: 979-12-5982-022-8 
            Verlag: Il Margine
            
 Format: EPUB
    Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Sociologo e filosofo, tra le figure più importanti della cultura contemporanea, è nato a Parigi, dove ha studiato storia, geografia e giurisprudenza. Le sue ricerche toccano temi di pertinenza del mondo dei media, della sociologia, della vita politica del Novecento, della biologia e della fisica, nonché delle scienze umane e sociali.
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Presentazione
Come alle spalle di ognuno sta la sua ombra,
 la sua cupa compagna di viaggio!
friedrich nietzsche
Tre meditazioni metafisiche
Il 1951 è un anno chiave per Edgar Morin. Ha trent’anni, viene assunto come tirocinante al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique), pubblica il suo primo vero libro, L’uomo e la morte, rompe con il Partito comunista francese, da cui viene espulso, e intraprende un esame critico dell’adesione filosofica e ideologica al marxismo.
Il titolo del libro rivela l’interesse fondamentale che muove sin dagli esordi e che connoterà tutta l’impresa intellettuale di Morin: una scienza o teoria generale dell’uomo. L’epistemologia della complessità, che si lega al suo nome e al frutto più prezioso e maturo di quell’impresa, nasce proprio dalla necessità di una delucidazione e di una riforma delle categorie di pensiero adeguate a sviluppare il progetto di una «antropologia generale», che, dopo L’uomo e la morte, lo porteranno a scrivere Il paradigma perduto, nel 1973, e i sei volumi del Metodo, dal 1977 al 2006.
L’estensione della sua antropologia al di là dei confini tradizionali delle «scienze umane», fino alla bio-antropologia prima e alla bio-antropo-cosmologia poi, evidenzia il proposito esplicito di intercettare la natura multidimensionale del fenomeno umano attraverso un percorso di integrazione dei saperi, che culminerà sia nella visione «complessa» del reale (nel senso del tutto intrecciato, interconnesso, in relazione con tutto, dall’etimo latino di cumplectere), sia di un metodo di conoscenza che non isola, non parcellizza, ma contestualizza, distingue senza separare, unisce senza confondere o abolire la contraddizione, decostruendo e scardinando così il paradigma semplificante, meccanicista e riduzionista della «scienza classica».
Già in occasione della ricerca antropologica sul rapporto tra l’uomo e la morte, Morin avverte l’esigenza di non restringerla all’essere umano «culturale» (morale, sociale, storico), secondo la visione insulare dell’uomo propria dell’umanesimo tradizionale, ma di includervi l’idea dell’uomo che, come specie, è anche frammento, espressione, produzione della Vita e del Cosmo.
In ogni caso, qui si definisce un tratto fondamentale dell’itinerario moriniano. Come per lo Heidegger di Essere e tempo saranno proprio la temporalità, l’evento, l’Ereignis a costituire l’interfaccia e la piattaforma girevole per indagare il problema dell’essere, così per Morin di L’uomo e la morte e delle opere successive sarà la condizione umana l’interfaccia e la piattaforma girevole per indagare i grandi problemi, non solo quello della morte. Morin li ricondurrà praticamente a tre grandi questioni e «meditazioni metafisiche», che fermentano già in questo primo capolavoro, e che il filosofo e sociologo francese non considererà mai inattuali, bensì da sviluppare e aggiornare costantemente nel solco criticista inaugurato da Kant, entro il quale la conoscenza dell’umano rinvia alla conoscenza della conoscenza e quest’ultima alla conoscenza dell’umano (Morin, 2015, pp. 9 e 61).
Finitezza dell’uomo, unità dell’uomo, destino dell’uomo sono i tre oggetti di riflessione speculativa con i quali — per dirla con le parole del filosofo Kostas Axelos, suo compagno di viaggio nell’avventura della rivista «Arguments» del 1956 — Morin si è innalzato al rango di «pensatore», per scrutare gli «orizzonti del mondo» e per azionare il «gioco del mondo» (Axelos, 1980), senza avere remore, di recente, a indicare una «via» (Morin, 2011) all’umanità futura.
Una breve ricognizione delle direzioni intraprese da Morin in queste tre meditazioni, a partire da L’uomo e la morte e in seguito, ci permetterà di comprendere come il tema della morte non sia mai stato abbandonato, proprio in quanto ontologicamente connesso all’uomo radicato nella Vita, a sua volta radicata nella Terra e nel Cosmo.
La finitezza dell’uomo
Un principio centrale del pensiero complesso è il principio dialogico. I fenomeni complessi possono presentare logiche opposte, antagoniste, ma complementari. C’è una dialogica fondamentale che caratterizza l’uomo: egli non è solo sapiens, razionale, calcolatore, strategico, ma anche demens, folle, delirante, furente, irrazionale. Il pensiero disgiuntivo concepisce la follia dell’uomo come il venir meno della razionalità, oppure ritiene che l’uomo sia ora razionale, ora folle. Sapiens e demens sono, invece, incastonati l’uno nell’altro, sempre attivi e potenzialmente creatori e distruttori l’uno dell’altro, si compenetrano e compongono una gerarchia in perpetua trasformazione (una tesi che Morin vede suffragata dalla concezione biologica del cervello uno e trino di Paul Donald MacLean). L’uomo non è solo faber, fabbricatore di utensili, non è solo economico, prosaico, ma è anche ludens, fantasioso, dissipatore, poetico, cioè inventore di giochi, danze, feste, credenze mitologiche e religiose, poesia. La vita umana ha bisogno tanto di razionalità quanto di affettività. Già con L’uomo e la morte, Morin è arrivato a questa dialogica (anche se qui si ricorre ancora al termine «dialettica»), a questa «doppia polarità», che sarà formulata esplicitamente per la prima volta con Il paradigma perduto. Collegando e articolando, come si è detto, le conoscenze distinte dell’etnologia, della sociologia, della storia, della biologia, Morin cerca di capire alcuni fenomeni contraddittori: come accade che l’essere umano, pur riconoscendo la morte come decomposizione del corpo, nutra sin dalla preistoria la credenza in una vita dopo la morte? Come accade che lo stesso essere umano che lotta incessantemente contro la morte sia poi capace di morire per i famigliari, per la patria, per le divinità della religione?
Per Morin, la spiegazione ultima della coesistenza di questi contrari si trova nel fatto che reale e immaginario non si oppongono tra loro, come il reale e l’irreale: l’immaginario è anche un’infrastruttura della realtà. Continuamente il mondo infonde la realtà all’uomo (a cominciare dalla constatazione della mortalità di ogni essere umano e di ogni altro essere vivente, della cui morte anche si nutre la vita dell’uomo) e continuamente l’uomo infonde, affettivamente, nevroticamente, istericamente, la realtà al mondo. In ogni tempo e ovunque, l’essere umano rifiuta la propria condizione di mortale.
Sin dalla preistoria e nelle società arcaiche, gli esseri umani hanno orrore per la morte e la decomposizione, nella misura in cui si distaccano dall’istinto di specie e avvertono la morte come una perdita dell’individualità, e, nello stesso tempo, la negano sul piano immaginario coltivando il desiderio di immortalità, che si coagula nella credenza della morte-rinascita in un al di là o della sopravvivenza del «doppio». Questa rivolta contro la propria condizione di animale mortale denota un disadattamento alla natura e un disadattamento dell’individuo umano alla propria specie, ma anche un adattamento al disadattamento.
Si comprende, così, come l’«orrore per la morte» non sia incompatibile con il «rischio di morte». Come già dimostrano, agli occhi di Morin, gli studi di paleontologia, etnologia, storia, sociologia, psicologia infantile e psicologia generale del tempo, la sistole e diastole di questo atteggiamento umano di fronte alla morte rimanda alla compresenza, nell’individuo umano, della tendenza all’autodeterminazione individualizzante con la tendenza ad aprirsi alle «partecipazioni» (concetto chiave che Morin mutua da Lévy-Bruhl) naturalistiche, cosmiche, religiose, collettive, a cominciare dal gruppo di appartenenza.
Il «passaggio» dalla natura alla cultura, secondo Morin — che più tardi parlerà piuttosto di un anello ricorsivo tra le due e di rapporti di inter-retroazione che si instaurano tra le condizioni cerebrali e le condizioni socio-culturali —, si compie con l’utensile e la sepoltura, ovvero con la magia, i miti e le credenze legate alla sopravvivenza dopo la morte. Anche quando arriveranno nelle società storiche le religioni politeistiche, le religioni della salvezza, le filosofie, le ideologie politiche, la secolarizzazione e la scienza, e anche quando le correnti dell’Entzauberung (disincantamento/razionalizzazione) porteranno il gelo dello scetticismo e dell’ateismo e la tecnica darà il cambio alla magia, i riti, le pratiche e le credenze relativi alla morte resteranno il settore più «primitivo» delle nostre civiltà, a cui il nostro sistema psico-affettivo non cessa di dare sostanza ed esistenza: basti pensare a come esso perduri nelle pratiche di occultismo e spiritismo o a quanto il tema del «doppio» si ripresenti nella letteratura moderna europea. E questa persistenza s’insinua nella permanente, e sempre irrisolta, contraddizione, presente anche nella «coscienza infelice» di oggi, tra il rifiuto psicologico della morte in quanto distruzione dell’individuo e l’impossibilità «razionale» di accettare l’idea, frutto dell’immaginario magico, mitologico e religioso del passato, di immortalità come morte-rinascita o come «doppio».
Non solo vent’anni più tardi in Il paradigma perduto, ma già nel primo libro Morin originalmente rimarca il contributo determinante e positivo che questo immaginario ha dato all’evoluzione culturale dell’uomo. Non malgrado esso, ma grazie a...





