Morizot | Sulla pista animale | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 264 Seiten

Reihe: saggi | terra

Morizot Sulla pista animale


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-802-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 264 Seiten

Reihe: saggi | terra

ISBN: 978-88-7452-802-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Uno dei temi che si va affermando oggi è quello riguardante il nostro ruolo di esseri umani nel mondo, nell'ambito di una riflessione intorno ai nostri rapporti con gli altri esseri viventi. In una vera avventura filosofica, Baptiste Morizot, richiamandosi alla sua passione per la pratica del tracciamento, ci trasporta, con una scrittura chiara e coinvolgente, attraverso boschi e foreste, come un detective che, una volta assunto il principio che qualunque vivente lascia traccia di sé, va alla scoperta di queste domande essenziali: chi vive qui? come? come possiamo creare un mondo diverso assieme agli altri viventi? 'Bisogna sperare che un diplomatico andato a inforestarsi presso gli altri esseri viventi ritorni trasformato, tranquillamente inselvatichito, lontano dalla ferocia fantasmatica attribuita agli Altri. Che colui che si lascia inforestare dagli altri esseri viventi ritorni leggermente modificato dal suo viaggio da licantropo: un mezzosangue, a cavallo tra due mondi. Né svilito né purificato, semplicemente altro e un minimo capace di viaggiare tra i mondi, e di farli comunicare, per lavorare alla realizzazione di un mondo comune'.

Baptiste Morizot, filosofo e scrittore francese, è ricercatore in Filosofia all'Università di Aix-Marseille. I suoi lavori, consacrati alle relazioni tra gli umani e gli altri esseri viventi, sono basati su una costante ricerca sul campo. Sulla pista animale ha ricevuto nel 2019 il Prix Jacques Lacroix dell'Académie française.
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Prologo
Inforestarsi


“Dove andiamo domani?”

“Andiamo nella natura”.

Per il nostro gruppo di amici, la risposta è stata a lungo ovvia, assodata e senza complicazioni, mai messa in discussione. Poi è arrivato l’antropologo Philippe Descola che, con il suo Oltre natura e cultura1, ci ha insegnato come l’idea di natura fosse una strana credenza degli occidentali, un feticcio di questa civiltà che ha, per l’appunto, un rapporto problematico, conflittuale e distruttivo con il mondo vivente che chiama “natura”.

Cosí, per organizzare le nostre uscite, non potevamo piú dirci: “Domani, andiamo nella natura”. Eravamo senza parole, muti, incapaci di esprimere le cose piú semplici. Il banale problema di formulare insieme “dove andiamo domani?” è diventato un balbettio filosofico: quale espressione utilizzare per dire in un altro modo che andiamo fuori? Come definire dove andiamo, quei giorni in cui tra amici, in famiglia o da soli, ci rechiamo “nella natura”?

La parola “natura” non è innocente: è il segno indelebile di una civiltà condannata a sfruttare massicciamente i territori viventi come materia inerte e a santuarizzare dei piccoli spazi dedicati allo svago, all’attività sportiva o alla rigenerazione spirituale – non avremmo potuto avere attitudini piú povere nei confronti del mondo vivente. Secondo Descola il naturalismo è la nostra concezione del mondo: la cosmologia occidentale che postula da una parte gli esseri umani che vivono in società chiuse e dall’altra una natura oggettiva costituita di materia, che diventa uno sfondo passivo per le attività umane. Questa cosmologia assume come un dato di fatto che la natura “esiste”; è tutto ciò che si trova là fuori, è quel luogo che sfruttiamo o attraversiamo da escursionisti, ma di sicuro non è il luogo dove abitiamo, e questo perché essa appare “là fuori” solo in opposizione al mondo umano dentro.

Con Descola, ci rendiamo conto che parlare di “natura”, utilizzare questa parola, attivare il feticcio, è già stranamente una forma di violenza nei confronti di quei territori viventi su cui si fonda la nostra sussistenza, di quelle migliaia di forme di vita che abitano la Terra con noi, e a cui vorremmo dare un ruolo diverso da quello di risorse, di esseri nocivi, o indifferenti, o di graziosi esemplari da osservare con il binocolo. Non è banale che Descola definisca il naturalismo come la cosmologia “meno gradevole”. Sia per un individuo che per una civiltà, è quantomeno logorante, a lungo termine, vivere nella cosmologia meno gradevole.

Nel suo Histoire des coureurs de bois, Gilles Havard scrive che il popolo amerindio degli Algonchini intrattiene spontaneamente “rapporti sociali con la foresta”2. È una strana idea che potrebbe scioccarci, eppure è proprio la direzione in cui questo libro vuole andare: si tratta di seguire questa pista. Vogliamo avanzare verso quest’idea in modo indiretto, attraverso racconti di tracciamenti filosofici e resoconti di pratiche che ci pongono in un’altra disposizione nei confronti del mondo vivente. Perché non tentare di mettere insieme una cosmologia piú gradevole attraverso le pratiche: tessendo insieme pratiche, sensibilità e idee (poiché le idee da sole non cambiano cosí facilmente la vita)?

Ma prima di seguire questa rotta sulla bussola, bisogna innanzitutto trovare un’altra parola per dire “dove andiamo domani”, o anche dove andiamo ad abitare, per tutti quelli che vogliono trasferirsi fuori dalle città.

È da alcuni anni che, tra amici che condividono alcune pratiche della “natura”, si è imposta questa domanda. Per formulare i nostri progetti non potevamo piú dire: andiamo “nella natura”. Bisognava assolutamente trovare delle parole per rompere con le abitudini del linguaggio, parole che facessero saltare dall’interno i punti fermi della nostra cosmologia. Una cosmologia che eleva gli ambienti donatori a riserve di risorse o a luoghi di rigenerazione, e che tiene a distanza, là fuori, quei territori viventi che di fatto stanno sotto ai nostri piedi e sono il nostro fondamento.

La prima trovata per raccontare il progetto, per dire altrimenti “dove andiamo domani”, è stata: “fuori”. Domani, andiamo fuori. “Mangiare e dormire in armonia con la terra”, come dice Walt Whitman3. Era una soluzione provvisoria ma, perlomeno, in questo modo la vecchia abitudine veniva accantonata – e l’insoddisfazione nei confronti della nuova formula spingeva comunque a trovarne altre.

Successivamente, la formula che si è imposta nel nostro gruppo di amici, dovuta alla stravaganza delle nostre pratiche, è stata: “nel bush”4. Domani, andiamo nel bush. Là dove, per l’appunto, non ci sono sentieri segnati. Là dove, quando ce ne sono, non determinano i nostri spostamenti. Perché noi andiamo a seguire le tracce (siamo tracciatori della domenica). Percorriamo il sottobosco in lungo e in largo, passando dai piccoli cammini dei cinghiali agli stretti passaggi dei caprioli: i sentieri umani non ci interessano, tranne quando attirano il desiderio geopolitico dei carnivori di marcare il territorio (volpi, lupi, linci o martore…). Questi ultimi prediligono i sentieri umani, utilizzati da molti animali, poiché le loro marcature, come blasoni e bandiere, lí sono piú visibili.

In questo caso, seguire le piste significa decifrare e interpretare tracce e impronte, per ricostruire delle prospettive animali: indagare su quel mondo di indizi che rivela le abitudini della fauna, il modo in cui abita tra noi, intrecciata con gli altri. All’inizio, il nostro occhio abituato alle prospettive imprendibili e agli orizzonti aperti si adatta con difficoltà a questo smottamento del terreno del paesaggio: solitamente di fronte a noi, ora lo ritroviamo sotto i nostri piedi. Il suolo è un nuovo panorama ricco di segni, un luogo che ormai richiama la nostra attenzione. Seguire le tracce, in questo nuovo senso, significa anche indagare l’arte di abitare degli altri esseri viventi, la società dei vegetali, la microfauna cosmopolita che crea la vita dei suoli, le relazioni che hanno tra loro e con noi: i loro conflitti e le alleanze con gli usi umani dei territori. Focalizzare l’attenzione non sugli esseri, ma sulle relazioni.

Andare nel bush non è andare nella natura: significa che nel paesaggio l’obiettivo non è la vetta per la performance o il panorama pittorico per gli occhi, ma la cresta che attira il passaggio del lupo, il fiume in cui di certo si scoprirà quello del cervo, l’abetaia dove si scorgeranno le unghiate della lince su un tronco, il campo di mirtilli dove si troverà l’orso, il crinale roccioso in cui gli escrementi bianchi dell’aquila tradiscono la presenza del suo nido…

Ancor prima di uscire, proviamo a localizzare sulle mappe e su internet la pista nella foresta attraverso cui la lince potrebbe raggiungere quei due massicci che predilige, la falesia dove nidificano i falchi pellegrini, la strada di montagna condivisa dagli esseri umani e dai lupi in diversi momenti del giorno o della notte.

Non cerchiamo piú le passeggiate, o i segni dei sentieri escursionistici che finiamo per incontrare casualmente, stupiti che esistano e senza troppo comprenderne la segnaletica. Diventiamo lenti, non divoriamo piú chilometri, giriamo in tondo per trovare le tracce e a volte per fare duecento metri impieghiamo un’ora, come dietro a quell’alce che andava su e giú per un fiume in Ontario: un’ora per seguire la sua pista, perdendola e poi rintracciandola, speculando per prevedere dove avremmo incontrato le impronte successive, per ritrovarci quindi esattamente al punto di partenza, accanto all’abetaia in cui, a giudicare dagli escrementi molto freschi, probabilmente faceva il suo sonnellino da nictalopo. Andiamo “nel bush”, ed è già un altro modo di dire e di fare.

Naturalmente, non si tratta di trovare un nuovo termine da imporre a tutti per rimpiazzare la parola “natura”: per noi si trattava solamente di costruire delle alternative, multiple e complementari, per dire e praticare altrimenti le nostre relazioni quotidiane con il vivente.

La terza formula per escogitare un’alternativa a “nella natura” mi è apparsa una mattina leggendo una poesia. È poco utilizzata, nonostante il potente fascino che racchiude. “All’aria aperta”. Domani, andiamo all’aria aperta5. Ciò che mi intriga in questa formula è come i vincoli della grammatica francese vi costringano poeticamente a intendere, quando la pronunciate, tutt’altro da quello che esprime. Come essa vi costringa a intendere l’elemento che piú si oppone all’aria, il piú complementare: è la “terra” che si impone all’orecchio, anche se non c’è nessuna t a invocarla come una vedetta in cima all’albero (“Terra! Terra!”).

Essere “all’aria aperta” significa anche essere sulla terra, ritornata terrena, o terrestre come dice Bruno Latour. L’aria aperta che inspiriamo e che ci circonda, grazie all’antico miracolo della fotosintesi, è il prodotto delle forze respiranti delle praterie e delle foreste che attraversiamo, che sono il dono dei terreni viventi che calchiamo: l’aria aperta è l’attività metabolica della terra. L’ambiente atmosferico è vivo in senso letterale: è l’effetto del vivente e l’ambiente che il vivente conserva per sé, per noi.

All’aria aperta: nella formula la terra si nasconde all’occhio, ma l’arcano si rivela all’orecchio. Una volta compresa, non possiamo piú ignorarla. E allora la formula magica invoca un altro mondo nel quale non...



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