E-Book, Italienisch, 246 Seiten
Reihe: Narrativa
Nooteboom Venezia
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7091-948-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il leone, la città e l'acqua
E-Book, Italienisch, 246 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-948-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
«Questa è sempre stata una città per forestieri. Il gioco consiste nel far durare un secondo di più l'incertezza, nell'essere veneziano per un microsecondo, prima che abbia luogo l'inevitabile smascheramento. Loro da un lato vivono di noi, dall'altro si sentono minacciati dalla nostra massa e la sera abbandonano la città come una nave che affonda. Ma come fai a spiegargli che non fai parte della massa?» Dopo oltre cinquant'anni di periodici soggiorni a Venezia, Cees Nooteboom offre alla sua città del cuore il proprio tributo di narratore che ha fatto del viaggio una forma di vita. Animato dalla sua inestinguibile curiosità, lo vediamo aprirsi all'imprevisto ogni volta che imbocca una calle, smarrirsi tra gli strati di passato in un luogo che nell'anacronismo ha la sua essenza e in cui i morti non sono mai completamente morti. Prendendo parte a «una conversazione che si protrae nei secoli», quella di Proust, Ruskin, Rilke, Byron, Pound, Goethe, McCarthy, Morand, Brodskij, Montaigne, Casanova, Goldoni, Da Ponte, James, Montale, si addentra nei paesaggi reali della città anfibia, tra mobilità dell'acqua e immobilità della pietra, e si insinua dentro scenari soltanto dipinti o immaginati, per vivere almeno qualcuna delle tante Venezie sognate dai grandi del passato. E quando è sopraffatto dalla sovrabbondanza di storia e di bellezza, cerca angoli più quotidiani, si fa invisibile in un bar, si mimetizza in un campiello e osserva come a teatro la vita veneziana che scorre, aggiungendo altre immagini, altre riflessioni, altre trasfigurazioni al suo particolarissimo ritratto della «città in cui i racconti non si esauriscono mai».
Weitere Infos & Material
Un lento arrivo
Nell’ora di allora c’è nebbia in Val Padana. Non ho voglia di leggere e guardo fuori i quadri che si succedono l’uno all’altro: una specie di palma, un arancio rapato a zero con i frutti che pendono assurdamente come un rimprovero, ma a chi? Salici piangenti lungo un fiume inquinato, marrone; cipressi ben curati; un cimitero con cappelle enormi, come se vi abitassero dei morti sbruffoni; lenzuola rosa stese ad asciugare; un battello capovolto, con la chiglia marcia; poi l’acqua: lo specchio biancastro e nebbioso della Laguna. Premo la fronte contro il finestrino freddo e vedo in lontananza il grigio accenno di qualcosa che dev’essere una città, ma che per ora ha l’aspetto dell’intensificazione del nulla, Venezia.
Nell’atrio della stazione mi sono già scrollato di dosso il treno, se n’è rimasto, marrone e laccato, sul binario autunnale; io sono di nuovo un normale passeggero, uno che arriva da Verona, una persona che cammina spedita verso il vaporetto tirandosi dietro una valigia. «Sopra i canali oscuri si inarcavano alti i ponti e c’era un cupo odore di umidità, di muschio e di verde decomposizione, c’era l’atmosfera di un passato misterioso antico di secoli, un passato di intrighi e di misfatti; figure tenebrose si muovevano furtive sui ponti, lungo le banchine, avvolte in mantelli, mascherate; sembrava che due bravi, là su un balcone, volessero… far scivolare nell’acqua silenziosa… il bianco corpo di una donna! Ma non erano che ombre, non erano che spettri creati dalla nostra immaginazione…»
Non sono io, era Couperus. Di fronte a me non è seduta un’ombra, ma una suora. Ha il volto pallido, lungo e affilato e sta leggendo un libro di «educazione linguistica». L’acqua è di un grigio quasi nero, oleosa, il sole non ci si riflette. Costeggiamo muri ciechi, corrosi, ricoperti di muschio e muffa. Anche davanti a me passano figure oscure sui ponti. Sull’acqua fa freddo, un freddo umido e penetrante che arriva dal mare. In un palazzo vedo qualcuno accendere due candele in un candelabro. Tutte le altre finestre sono chiuse da imposte scrostate, e ora si chiude anche l’ultima, una donna si fa avanti con quel gesto che non può essere diverso: tende e allarga le braccia per prendere le imposte, la sua figura si staglia contro la debole luce, poi si fa scura anche lei, si rende invisibile. Il mio albergo si trova proprio dietro piazza San Marco; dalla mia stanza, al primo piano, vedo qualche gondoliere ancora in attesa di turisti, nonostante sia tardi; le gondole nere si cullano piano sull’acqua color della morte. In piazza cerco il punto da cui ho visto per la prima volta il campanile e la basilica. È stato molto tempo fa, ma il momento è indimenticabile. Il sole batteva sulla piazza, su tutte quelle curve, femminee forme di portali e di cupole, il mondo fece un quarto di giro e io fui preso dalle vertigini. Qui gli esseri umani avevano realizzato qualcosa di impossibile, su questi pezzi di terra paludosa avevano escogitato un antidoto, un incantesimo contro tutto quel che di brutto c’era al mondo. Avevo visto cento volte quelle immagini riprodotte, eppure non ero preparato, perché era la perfezione. Quel senso di felicità non se n’è mai andato e ricordo ancora di aver attraversato la piazza come se fosse una cosa proibita, passando dai vicoletti oscuri a quel vasto rettangolo inondato dal sole e, là in fondo, quella , quell’irreale ordito di pietra. In seguito sono tornato a Venezia piuttosto spesso e, benché quella frecciata della prima volta non si sia più ripetuta, c’è sempre la stessa mescolanza di estasi e smarrimento, anche adesso, con la nebbia e le passerelle per l’acqua alta. Quanto peserebbero, tutti insieme, gli occhi che hanno visto questa piazza?
Cammino lungo la riva degli Schiavoni. Se dovessi girare a sinistra mi perderei in un labirinto, ma non voglio andare a sinistra, voglio continuare a percorrere questa frontiera già quasi nascosta tra la terra e l’acqua fino al monumento alla Partigiana, alla forma distesa a terra di una donna morta, contro cui battono le piccole onde del bacino di San Marco. È crudele e triste, quel monumento. Il buio oscura quel corpo grande e cupo che sembra oscillare piano avanti e indietro, le onde e la nebbia mi ingannano, ho l’impressione che i capelli vengano sparsi dal movimento dell’acqua, l’impressione che la guerra sia adesso, non allora. È perché parla alla nostra memoria che è così grande, una donna troppo grande a cui hanno sparato e che continuerà a giacere nell’acqua fino a quando, come accade a tutti i monumenti, non sarà più triste ricordo di una specifica guerra e di una specifica resistenza, ma segno del perpetuarsi di guerre e resistenze. E tuttavia, com’è facile separare una guerra dal suo sangue, se è passato abbastanza tempo. Nel libro che porto con me, , le battaglie, il sangue e gli stati sono resi astrazioni raffigurate da tratteggi, frecce e confini mobili sulla carta dell’Italia, del Nord Africa, della Turchia, di Cipro e di quelli che oggi sono il Libano e lo Stato di Israele; le frecce arrivano fino a Tana e a Trebisonda, sul Mar Nero, fino ad Alessandria e a Tripoli, e sulle rotte segnate da quelle frecce le navi tornavano cariche di bottino e di mercanzie che fecero della città sull’acqua un tesoro bizantino.
Prendo un battello per la Giudecca. Non ho niente da fare, lì. Le chiese del Palladio sembrano inaccessibili fortezze di marmo, i passanti vi si aggirano intorno come spettri. La gente se ne sta in casa, dalle finestre chiuse arriva il rumore smorzato delle televisioni. Vado da una via all’altra, cerco di arrivare sull’altro lato dell’isola, ma non ci riesco. Ormai distinguo a stento le luci della città. È così che, per me, potrebbe essere il purgatorio: vicoli ciechi, ponti che appaiono all’improvviso, angoli, case abbandonate, rumori di ignota provenienza, il richiamo di un corno da nebbia, passi che si allontanano, persone senza volto che camminano con la sciarpa intorno alla testa, una città piena di ombre e del ricordo di ombre, Monteverdi, Proust, Wagner, Mann, Couperus vagano all’incessante presenza di quell’acqua nera, spalmata di morte, levigata come una lapide marmorea.
Il giorno dopo visito l’Accademia. Sono venuto per la laicissima del Veronese, ma è in restauro, la sala è chiusa da un paravento. I due restauratori, un uomo e una donna, sono seduti l’uno accanto all’altra su una bassa panca e lavorano alle piastrelle appena al di sotto della figura in rosa e di quella in verde, per ora le chiamerò così. Strofinano una superficie piccolissima usando un bastone a cui è attaccata una pallina bianca. Il colore si schiarisce. La donna indossa un abito rosso che si intona a una delle figure. Di tanto in tanto depongono i loro bastoni chimici e discutono su un colore o una direzione, i loro gesti sono teatrali come quelli del Veronese. Non ricordo se è stato Baudelaire a paragonare i musei ai bordelli, quel che è certo è che sono sempre di più i quadri che pretendono qualcosa da te di quelli da cui tu pretendi qualcosa. È questo a rendere così oppressiva l’atmosfera nella maggior parte dei musei: tutti quei metri quadrati dipinti con una precisa intenzione che se ne stanno lì appesi a far mostra di sé e non hanno niente da dire, con l’unica funzione di illustrare un periodo, di rappresentare un nome, di confermare una reputazione. Ma oggi, mentre me ne venivo via deluso dal Veronese nascosto, ho fortuna.
In un quadro davanti a cui sono già passato c’è qualcosa che mi richiama, il mio cervello si è impigliato da qualche parte. Il pittore, Bonifacio de’ Pitati, non l’ho mai sentito nominare. La tela si intitola e si capisce perché. Sopra il campanile – crollato in realtà nel 1902, ma il pittore, morto secoli prima, non poteva saperlo – incombe minacciosa una nuvola scura. La cima del campanile è invisibile, la nuvola stratificata; un vecchio con le braccia aperte, avvolto in un manto ancora più scuro, simile anch’esso a una nuvola, vola circondato da teste e parti del corpo – l’ombra di una manina, un braccio paffuto levato verso l’alto – di quella categoria d’angeli poco attraenti chiamati «putti». Alla cupezza del mantello, e al male minore della nuvola, sfugge una colomba che diffonde una luce strana e penetrante. La mia educazione mi ha perfettamente condizionato a interpretare le rappresentazioni come questa. Si tratta del Padre e dello Spirito Santo che, non accompagnati dal Figlio, sfrecciano a grande velocità sopra la Laguna. La basilica di San Marco è dipinta con cura, tutto il resto appare un po’ indistinto, faccio fatica a rendermi conto che quella chiesa, raffigurata lì tanto tempo prima, si trova vicino a me. Sulla grande piazza ci sono degli esseri umani, accennati con pennellate leggere. Alcuni hanno sollevato le loro braccia diafane, simili ad ali, ma un’ondata di terrore, come quella che seguirebbe una sparatoria, questa manifestazione dell’Eternità non la suscita. Qualche vela, sulle navi, viene toccata dalla luce che si sprigiona dalla colomba, ma nessuno di coloro che sono sulla piazza diventa «onimo», non hanno volto, e dunque non hanno nome...