Ovejero | Fumo | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Intrecci

Ovejero Fumo


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6243-598-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-598-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Una donna e un bambino vivono in una baracca in mezzo alla foresta, non hanno legami di sangue ma insieme formano una famiglia, atipica e silenziosa. Il rapporto tra i due si riduce a gesti, sguardi e abitudini condivise. La vita nella baracca è semplice, primitiva, finalizzata alla sopravvivenza, mentre il mondo fuori è ostile e selvaggio, il cibo scarseggia, la civiltà e la tecnologia sono echi lontani, appartengono a un passato dimenticato... Con uno stile asciutto e poco rassicurante José Ovejero ci racconta un futuro primordiale abitato da personaggi solitari e senza alcuno spirito eroico, e ci spinge a riflettere sull'animalità profonda della natura umana ma anche sulla sua straordinaria capacità di resistenza.

Nato a Madrid nel 1958, è vissuto in Germania e poi a Bruxelles, dove risiede attualmente, conciliando per lungo tempo il lavoro di interprete con quello di scrittore. La sua produzione letteraria comprende vari generi: sia racconti, Cuentos para salvarnos todos (1996) e Come sono strani gli uomini (Voland 2003), che romanzi, fra cui Nostalgia dell'eroe (Voland 2005) e Huir de Palermo (1999). Vanno menzionati anche i libri di viaggio, Bruselas (1996) e Cina per ipocondriaci, quest'ultimo insignito del premio Grandes Viajeros nel 1998 (uscito in italiano per Feltrinelli). Con la raccolta di poesie Biografía del explorador ha vinto il premio Ciudad de Irún nel 1993. È stato anche insignito del prestigioso premio Primavera per il romanzo La vita degli altri (Voland 2008). I suoi libri sono tradotti in francese, tedesco, portoghese e olandese. http://www.ovejero.info/
Ovejero Fumo jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


Miss Daisy entra e si dirige direttamente dal bambino. Gli si stende accanto. A volte lui la accarezza distratto. Altre, si dedica con lei a giochi pieni di onomatopee e di gesticolazioni che non riesco a decifrare. Per di più, quando lo fa posso soltanto osservarli di sottecchi perché se il bambino si accorge che presto loro attenzione interrompe ciò che sta facendo e gira la testa verso la parete. Non voglio togliergli quello sfogo, la fuga in qualche luogo fantastico in cui riesce a scappare da questa baracca. Così ascolto i loro giochi, la voce del bambino che diventa gattesca, qualche sbuffo poco minaccioso, i loro movimenti leggeri – non so chi dei due è più gatto, se l’animale o il ragazzino – e in momenti stupendi qualcosa di simile a una risata. Proprio allora, sentendo la gatta e il bambino, avvertendo i loro spostamenti sul pavimento di legno, provo una sensazione di casa. Perciò non mi stacco da loro né mi distraggo. Fingo di dedicarmi a qualche compito imprescindibile nelle vicinanze: pulire la stufa, dalla cenere e anche dalle api che a volte entrano dal comignolo e muoiono prima di riuscire a tornare all’esterno sebbene il fuoco non sia acceso; cucinare, se c’è qualcosa da cucinare (prima più che adesso) sulla stessa stufa, con una piastra di metallo che funge da fornello sul piano superiore; sturare ancora una volta l’acquaio che fa anche le veci di lavabiancheria (qui tutto svolge diverse funzioni allo stesso tempo, ma nessuna bene), di lavabo e quasi di vasca da bagno; io mi lavo soltanto usandolo come se fosse una bacinella – il filino d’acqua che esce dal rubinetto non mi consente di lavarmici direttamente – però a volte il bambino ci si arrampica e si siede sulla superficie di mattonelle sbeccate in cui è incastrato, ci infila i piedi, sguazza, cerca di sedercisi dentro, ma nemmeno lui è abbastanza piccolo da riuscirci. Malgrado i suoi tanti pudori, non si vergogna di stare nudo in mia presenza. A volte gioca distratto con il suo pene minuscolo, lo tira o lo massaggia, se lo gratta anche quando passiamo molto tempo senz’acqua e non può lavarsi per giorni: non sono mai riuscita a farlo scendere con me al fiume, o meglio, scende con me, ma si rifiuta di fare il bagno. Non so nulla di lui prima del giorno in cui è entrato nella baracca con la naturalezza di chi entra nella propria casa, si è seduto su una sedia e si è messo a giocare con Miss Daisy, che è stata la prima ad adottarlo, così non so nemmeno se ha avuto qualche brutta esperienza con acque impetuose. O magari non aveva mai visto prima un fiume e gli fa paura la velocità con cui l’acqua avanza trascinando foglie, piccoli tronchi, pesci morti, e i vortici sull’altra sponda, la schiuma quando la corrente urta le rocce, il rumore dei sassi che precipitano a valle. Gli ho mostrato un’ansa tra le radici di betulla in cui l’acqua si ferma e non è tanto profonda da non poter toccare. Ma non sono mai riuscita nemmeno a farlo avvicinare. Faccio io il bagno, senza togliermi gli slip; anche se mi sembra strano, io sì che provo pudore. Immagino sia perché lui può fissare per minuti quello che gli interessa, quasi senza sbattere le palpebre, e mi sentirei a disagio nuda sotto quello sguardo, sebbene sia quello di un bambino.

Quando si stancano di giocare vengono da me, tutti e due, mi osservano con quella capacità di fissare che condividono, do al bambino e a Miss Daisy qualcosa da mangiare, nel caso ce l’abbia.

Se il cibo scarseggia, la gatta mi segue dovunque, vigila ogni mio movimento, si alza sulle zampe posteriori al mio passaggio, miagola, si strofina contro le mie gambe facendomi inciampare. Vai a caccia, le dico, e portaci qualcosa. Il felino sei tu. Il bambino non protesta quando non gli do da mangiare. Non mi segue né piagnucola, non sembra nemmeno che cambi il suo stato d’animo. Accetta la fame come accetta il freddo o il caldo, le api o il vento. Non sembra avere consapevolezza di ciò che è frutto di un’azione umana e ciò che ci impone la natura. Forse ha ragione e non c’è alcuna differenza. Che sia una volontà o un evento casuale a ferirci, questo non altera la grandezza del danno. In ogni caso, probabilmente capisce che se saltiamo un pasto non è perché io glielo neghi, ma perché tutto marcisce nell’orto come se il suolo fosse diventato velenoso, e anche gli alberi che ci circondano danno sempre meno frutti. Ci rimangono le bacche, le nocciole, che quest’anno sono quasi tutte ammuffite dentro il guscio, e le noci, in gran parte vuote. Anche funghi e ghiande. E in rarissime occasioni un po’ di carne, non quando vado a caccia io, l’ho fatto poche volte, non soltanto per mancanza di mira, ma anche perché preferisco conservare le cartucce per quando la necessità sarà estrema, e non mi riferisco alla fame. Se mangiamo carne è perché qualche volta un cane inselvatichito viene a divorare una preda, al calore che esce da sotto la porta o per sfuggire alla solitudine nelle vicinanze di altri esseri viventi, e io riesco a strappargliela. È un vantaggio che i cani non mi abbiano mai fatto paura. Ho un forcone di metallo con le punte quasi smussate, che deve essere servito per ammucchiare il fieno, con cui, non appena si distrae, stringo il collo dell’animale al suolo. È della giusta grandezza perché, tranne i cani molto piccoli, non possano tirar via la testa una volta che li ho intrappolati. Fanno resistenza, è chiaro che fanno resistenza, si dimenano e grugniscono, cercano di fare piroette per liberarsi, girano gli occhi all’indietro come per scoprire l’origine dell’aggressione. E finiscono per mollare la preda, alcuni per disperazione, i più aggressivi con l’intenzione di avere le fauci libere e mordere in ogni direzione. Allora mi accovaccio, stringendo con forza l’asta del forcone, non sia mai se ne scappino all’ultimo momento e soprattutto perché non riescano ad allungare il collo abbastanza da mordermi, raccolgo il pezzo di carne che, se sono fortunata, hanno masticato appena. Poi entro nella baracca tenendo ancora fermo l’animale con il forcone e, dalla soglia, lo libero subito prima di chiudere la porta. In genere, non faccio loro molto male. Quelli che si agitano e lottano di più finiscono con abrasioni da impiccato sul collo, qualche taglietto, niente di davvero grave. Un mastino che è stato sul punto di buttarmi giù, tanta era la forza e la rabbia con cui si dibatteva, si è lanciato contro la porta chiusa; ho visto dalla finestra come mordeva la maniglia, grugniva e sbavava, dando spintoni con una delle zampe anteriori. Ha finito per stancarsi, però si è aggirato intorno alla casa per un po’ e mi sorvegliava da lontano quando scendevo nell’orto, armata con il fucile e all’erta, perché non mi sarei sorpresa se mi avesse attaccato. Anche se perfino i cani inselvatichiti sembrano sapere cos’è un fucile.

Confesso che non provo ribrezzo a mangiare la carne che strappo ai cani. Di solito si tratta di un uccello mezzo spiumato dai denti dell’animale, a cui tolgo le ultime piume, taglio la testa generalmente distrutta, e lo getto in padella, se è necessario togliendo anche le zone in cui sono rimaste schegge d’osso. No, non me ne vergogno né mi fa schifo. Piuttosto, provo orgoglio per la mia capacità di sopravvivenza.

Soltanto in un’occasione ho evitato di mangiare la preda strappata a un giovane labrador, a cui per di più, senza volere, ho conficcato il forcone nel collo ed è fuggito lamentandosi tra i ginepri. È vero che mi ha contratto lo stomaco aver ferito l’animale, quasi inchiodandolo al suolo malgrado i rebbi spuntati del forcone, che mi hanno fatto sentire male i lamenti del cane, il suo sguardo di riprovazione, il suo terrore. Ma se non ho cucinato il coniglio non è stato per quello. Quando l’ho portato dentro la baracca – si sentivano ancora i guaiti del cane in lontananza – mi è sembrato che avesse gli occhi come appiccicati con la colla. Non mi ha tranquillizzato nemmeno il sangue ormai così secco che sembrava essergli uscito dal naso prima di venire catturato. Sono quasi sicura che la mixomatosi non si trasmette agli umani, perciò non era tanto la paura dell’infezione quanto il rifiuto di mangiare carne di un animale infetto (potrei quasi dire un sentimento superstizioso o almeno irrazionale) che mi ha portato a rinunciare al coniglio. Il bambino si era avvicinato perché pensava che l’avrei scuoiato e lo affascina quando spiumo, taglio carne e ossa, separo cartilagini. Non mi aveva mai visto scuoiare un coniglio, però probabilmente pensava che avrebbe assistito a un’operazione stupefacente.

È malato, gli ho detto, sebbene quell’affermazione avrei potuto applicarla soltanto a un essere vivente. Gli occhi, guarda, sono gonfi, e appiccicosi.

Il bambino ha allungato la mano e gli ha accarezzato le palpebre. Non possiamo mangiarlo. Lascialo, gli ho detto anche, perché l’aveva afferrato per una zampa. No, non è da mangiare.

Raramente il bambino fa i capricci ma per quanto tirassi non riuscivo a fargli mollare la zampa mordicchiata del coniglio.

Ti ho detto di lasciarlo, e l’ho spinto con forza perché aveva tirato fuori il coltello da una tasca. Sono uscita, ho percorso il tratto di cespugli che ci separa dal bosco, con il bambino che quasi mi correva dietro, e ho lanciato il cadavere tra gli alberi più lontano che ho potuto. Se dico che il bambino ha passato tre giorni senza parlarmi non è molto significativo perché è la norma che non mi parli. Però si rifiutava perfino di guardarmi e ignorava la mia presenza.

Non fare lo stupido, ci saremmo potuti ammalare. Ma immagino che l’urgenza del cibo fosse per lui più forte di qualunque precauzione. La prossima volta che mi procurerò un coniglio, se ci sarà una prossima volta, anche se avrà la mixomatosi o qualunque altra malattia,...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.