Ovejero | Insurrezione | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 352 Seiten

Reihe: Intrecci

Ovejero Insurrezione


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-6243-490-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 352 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-490-4
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



A diciassette anni, Ana ce l'ha con il mondo. Con il sistema. Con i genitori divorziati: con la madre che crede si possa salvare il pianeta vendendo borse fatte con materiali riciclati; con il padre che si rassegna alle condizioni di lavoro nella radio in cui collabora. E allora va a vivere in una casa occupata. Lì Ana trova rifugio dall'orrore del precariato, dalla gentrificazione di Lavapiés, il quartiere popolare di Madrid in cui adesso abita, assalito dai turisti, dai locali alla moda e dall'aumento vertiginoso dei prezzi. Lì trova, o pensa di trovare, il calore dei compagni, un senso di appartenenza, uno scopo. Anche se quello scopo può richiedere qualche azione violenta... Un romanzo senza ideologismi né soluzioni rassicuranti in cui Ovejero racconta le debolezze e i conflitti delle nostre società, mettendone a nudo tutti i nervi scoperti.

Nato a Madrid nel 1958, è vissuto in Germania e poi a Bruxelles, dove risiede attualmente, conciliando per lungo tempo il lavoro di interprete con quello di scrittore. La sua produzione letteraria comprende vari generi: sia racconti, Cuentos para salvarnos todos (1996) e Come sono strani gli uomini (Voland 2003), che romanzi, fra cui Nostalgia dell'eroe (Voland 2005) e Huir de Palermo (1999). Vanno menzionati anche i libri di viaggio, Bruselas (1996) e Cina per ipocondriaci, quest'ultimo insignito del premio Grandes Viajeros nel 1998 (uscito in italiano per Feltrinelli). Con la raccolta di poesie Biografía del explorador ha vinto il premio Ciudad de Irún nel 1993. È stato anche insignito del prestigioso premio Primavera per il romanzo La vita degli altri (Voland 2008). I suoi libri sono tradotti in francese, tedesco, portoghese e olandese. http://www.ovejero.info/
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1


Aitor non riusciva a ricordare nessun avvenimento della propria vita che l’avesse colpito tanto quanto la scomparsa di sua figlia. Anche se Ana se n’era andata di casa volontariamente e dopo avere annunciato diverse volte il suo proposito, o piuttosto dopo averlo usato come una minaccia, Aitor provava l’angoscia di chi ha perso una persona molto cara in un incidente o in una catastrofe. Il fatto che lui non avesse mai desiderato avere figli non rendeva più lieve la desolazione.

Aveva immaginato che li avrebbe avuti, non tanto per sua volontà quanto perché gli sembrava la conseguenza logica del suo desiderio di vivere con una donna. Da adolescente, sì, aveva sognato una vita intensa e senza legami, una vita nomade nella quale avrebbe potuto via via decidere i luoghi e le persone di cui si sarebbe circondato, e anche la durata delle sue relazioni, ma ben presto si era reso conto che ciò di cui aveva bisogno era una donna tranquilla e affettuosa, che lo aiutasse a placare un’inquietudine che, sebbene non si affacciasse mai all’esterno, lo faceva vivere con la premonizione di un disastro imminente, di una minaccia alla quale doveva essere preparato. Quella donna avrebbe senza dubbio voluto avere figli – sospettava che le donne tranquille e affettuose tendano ad aspirare a una famiglia – e lui lo avrebbe accettato, come avrebbe accettato di comprare una casa, sottoscrivere un mutuo, avere un lavoro stabile e andare a trovare i genitori di lei qualche fine settimana e ovviamente a Natale. Quella prospettiva gli sembrava un po’ noiosa ma non preoccupante, come essere costretto a fare la spesa o a lavare la macchina, compiti che non sono divertenti ma neanche tanto sgradevoli da rovinarti la giornata, routine, successioni prevedibili di attività che sarebbero servite a tranquillizzarlo e a dargli una struttura con cui alleviare i suoi timori. Ma se gli si fosse chiesto se lui, indipendentemente dai desideri degli altri, lui, desiderasse avere figli, avrebbe risposto sorridendo che gli sarebbe piaciuto molto avere un cane. Un cane, pensava, gli sarebbe bastato per disattivare l’inquietudine che gli ronzava dentro.

È probabile che la sua disaffezione per i bambini dipendesse dal fatto che quando lo era lui, Antón, suo padre, un ingegnere che costruiva pozzi petroliferi, passava lunghi periodi fuori casa e fuori dal paese, per cui il suo rapporto con lui era stato come quello che avrebbe potuto avere con un lontano parente, e dal fatto che neanche Maika, sua madre, era stata molto incline alle effusioni affettive. Non che lo maltrattasse o lo trascurasse, però si limitava a compiere i propri doveri come chi fa un lavoro imprescindibile, poco piacevole sebbene non tanto fastidioso, come, di nuovo, lavare la macchina o fare la spesa. Lei avrebbe preferito avere una bambina. Anzi, era assolutamente convinta che fosse una bambina quella che le cresceva in grembo e tuttavia ventiquattr’ore prima del parto non aveva ancora deciso come si sarebbe chiamata, decisione che avrebbe preso da sola perché il marito stava lavorando da tre mesi a cento chilometri dalla costa norvegese e non avevano mai trovato l’occasione per discuterne.

Aitor aveva avuto la fortuna di non nascere femmina.

Se sua madre non aveva deciso il nome dipendeva dal fatto che detestava tutto ciò che suonava minimamente basco o spagnolo. Il padre di Maika era stato un alcolizzato che maltrattava la moglie con lo stesso accanimento con cui difendeva l’indipendenza dei Paesi Baschi e considerava effeminati e atei tutti gli spagnoli senza eccezione, e Maika non ricordava più se i mesi che il padre aveva passato in carcere fossero una conseguenza delle botte date alla madre o delle sue attività politiche nel circolo ispirato all’indipendentista Sabino Arana al quale apparteneva. Maika si chiamava in realtà María del Carmen, però il padre aveva proibito di chiamarla così e aveva imposto quella contrazione più radicata, come diceva lui, nella patria basca. La figlia, sebbene disprezzasse i discorsi del padre sulla superiorità dei biscaglini – molto al di sopra degli abitanti di San Sebastián e, naturalmente, degli alavesi – non aveva saputo liberarsi dal suo odio per gli spagnoli, così come non era riuscita nemmeno, una volta trasferitasi a Madrid, a chiamarsi di nuovo María del Carmen o, almeno, Mari Carmen o Carmen e basta; anche se si era presentata così ai suoi nuovi conoscenti, l’abitudine, o un orgoglio che le risultava difficile sia spiegare sia accettare, l’aveva portata dopo poco tempo a tornare al nome della sua infanzia e della sua giovinezza. Cosicché, rispetto alla figlia, non si decideva per un nome abituale in nessuna delle due tradizioni che le davano fastidio come un paio di scarpe troppo piccole e aveva civettato con la possibilità di darle un nome nativo americano, come Pocahontas o Malinche, però una notizia alla radio aveva cambiato le sue preferenze. Aitor sarebbe nato il 6 agosto 1970, con un parto indotto perché la gravidanza si avviava verso le quarantadue settimane di durata; dal letto dell’ospedale Maika aveva sentito alla radio della vicina di stanza che si commemoravano i venticinque anni dalla bomba di Hiroshima e, forse un po’ confusa per i dolori, per la solitudine (nessuno della famiglia era con lei in quei momenti) e poi per gli effetti dell’anestesia necessaria al cesareo, aveva deciso che sua figlia si sarebbe chiamata Hiroshima. Le sembrava un nome allo stesso tempo sonoro, esotico e originale, adeguato alla persona eccezionale che sarebbe diventata sua figlia. Quando le mostrarono che evidentemente era un maschio, all’inizio insistette che aveva dato alla luce una bambina, ma dovette accettare, se non le affermazioni del chirurgo e delle infermiere, l’evidenza di quel pene di una grandezza che a lei parve esagerata per un bambino così piccolo, e quando ore dopo una donna in camice bianco le chiese come si sarebbe chiamato il neonato, lei non seppe cosa rispondere. Come si chiama suo padre?, domandò l’infermiera per cercare di dare una mano. Aitor, rispose Maika, dando il nome del proprio padre, forse perché le si impappinò la lingua a causa della vicinanza fonetica con quello di suo marito, però, anche se in seguito avrebbe potuto correggere il malinteso o scegliere un nome diverso, l’indifferenza e la stanchezza la portarono a lasciare le cose come stavano, per cui il bambino finì per avere un nome basco e un cognome castigliano, Aitor Sánchez.

Una delle poche volte che Maika parlò al figlio della gravidanza e del parto, quando lui era ancora piccolo, gli raccontò fra le risate che in realtà si sarebbe dovuto chiamare Hiroshima, in onore della città spazzata via dalla bomba atomica. A lui venne un’inesplicabile voglia di piangere e non avrebbe saputo dire se per l’ilarità così poco abituale nella madre o perché lo feriva che non avesse voluto lui, proprio lui, invece di una bambina o un bambino qualunque. Riuscì a domandarle perché fosse convinta che avrebbe avuto una bambina e lei, dopo averci pensato un po’, disse che era stata una gravidanza molto semplice, quasi senza nausee, che lui non le aveva mai dato calci e quasi non si muoveva, sicché spesso non notava nemmeno la sua presenza, come se il corpo del feto non sfiorasse mai le pareti dell’utero. I maschietti ti prendono a calci già prima di uscirti dal corpo, chiarì, anche se non aveva motivi per saperlo. Aitor si immaginava dentro sua madre come un astronauta che galleggiava e girava su sé stesso nello spazio, lentamente, unito alla navicella soltanto da un cavo che gli impediva di perdersi per sempre nell’oscurità che lo circondava.

Aitor non ebbe fratelli: suo padre decise di rimanere in Brasile, dove da diversi mesi lavorava per la Petrobras all’estrazione di petrolio sulle rive del Rio delle Amazzoni (mandò un paio di fotografie della giungla e un’altra di un tapiro morto a cui mancava una zampa), e chiese il divorzio per procura, che Maika accettò senza opporre resistenza. L’ultima volta che Aitor vide suo padre fu in una foto di “El País”, che accompagnava un articolo su un processo aperto contro la Chevron nel 2003 per uno sversamento di petrolio nel Parco Nazionale Yasuní, in Ecuador. Suo padre sorrideva tra gli imputati; dimostrava più anni di quelli che poteva avere, con pochi capelli appiccicati da una parte all’altra di una pelata rilucente sotto i flash, una giacca dalle maniche troppo corte e spessi occhiali da professore universitario di qualche lingua morta. Malgrado il sorriso, aveva un’aria sperduta, indecisa, imbarazzata, mentre la cravatta floscia e il colletto della camicia con un bottone slacciato davano l’impressione che l’avessero appena prelevato da una festa in cui aveva bevuto troppo per portarlo al processo. Aitor non mostrò la fotografia alla moglie e non chiese nemmeno a Maika se l’avesse vista.

Sua madre non si risposò né ebbe, che Aitor sapesse, rapporti duraturi con altri uomini. Si suicidò giusto il giorno in cui Aitor compì ventinove anni, qualche minuto dopo averlo chiamato per fargli gli auguri e dirgli che aveva dimenticato di comprargli un regalo.

Così, forse perché non poteva contare su un modello attraente per rapportarsi ai bambini, Aitor non aveva mai desiderato averne, ma non aveva neanche vissuto un’esperienza tanto conflittuale da opporvisi recisamente. Non erano nei suoi piani, anche se sarebbero finiti per arrivare, come le rughe o, se ereditava quella caratteristica da suo padre, come l’alopecia. Per questo lo sorpresero tanto la forza del suo legame con Ana e il fatto che la bambina, appena nata, si trasformasse nel centro della sua vita, più della moglie, Isabel, e di certo più di Luis, l’altro figlio che avevano avuto quattro anni prima di Ana, con il quale coltivò il rapporto di...



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