Reynolds | Post punk | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 973 Seiten

Reynolds Post punk

1978-1984
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-954-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

1978-1984

E-Book, Italienisch, 973 Seiten

ISBN: 978-88-7521-954-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il post punk non è un «genere» come tanti, non è la diligente coda del punk, a cavallo tra due decenni, quando la rivoluzione è finita e i giochi sono fatti; è, al contrario, la musica e il tempo in cui tutto diventa possibile. I confini cadono, i divieti sono ignorati, le regole vengono sovvertite in una sperimentazione continua, selvaggia e colta insieme. Il post punk non è retromaniaco - per usare la categoria critica che lo stesso Simon Reynolds ha creato e che si è imposta come definizione della nostra epoca - ma è il «suono» del presente e delle sue possibilità infinite. Per questo motivo, a distanza di quarant'anni, ancora appassiona e influenza. La musica degli inglesi Joy Division, P.I.L., Gang of Four e Slits, degli americani Pere Ubu, Devo, Talking Heads e di altri gruppi noti e meno noti continua a essere fonte d'ispirazione per migliaia di artisti in tutto il mondo. Con Post punk Simon Reynolds scrive il suo libro più personale e coinvolgente, mostrando l'erudizione enciclopedica, la raffinatezza d'analisi e l'abilità divulgativa che ne fanno il critico musicale più importante della nostra epoca. I suoni e le emozioni, le speranze e l'euforia escono fuori da ogni pagina e ci invitano all'ascolto amorevole di una musica e di un tempo che non può essere ripetuto ma solo reinventato.

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INTRODUZIONE


Il punk mi ha sfiorato a malapena di striscio. All’epoca non avevo ancora quattordici anni, ed ero cresciuto in una città di pendolari dell’Hertfordshire. Del 1977, e di tutto ciò che portò con sé, ho solo qualche pallida reminiscenza. Ricordo vagamente un supplemento domenicale a colori che pubblicava servizi fotografici sui punk con i capelli a punta, e praticamente nient’altro. I Pistols che dicevano oscenità in televisione, «God Save the Queen» contro il Giubileo d’argento, tutta una cultura sconvolta e scossa fino alle fondamenta: e io . Quali erano i miei interessi nel 1977, dunque, e di cosa mi occupavo? Be’, è tutto un po’ nebuloso. Era l’anno in cui volevo fare il fumettista? Oppure quello in cui, dopo aver scoperto la fantascienza, trascorrevo le mie giornate a vivisezionare le pagine di Ballard, Pohl e Dick della riserva della biblioteca di quartiere? Una cosa è certa: la musica pop faceva poca presa sulla mia coscienza.

Fu Tim, il mio fratello minore, a convertirsi al punk per primo: dalla stanza di fianco arrivava un pandemonio infernale. In una delle tante occasioni in cui andai a protestare, probabilmente mi trattenni un po’ in camera sua. Inizialmente furono le parolacce a colpirmi (non dimentichiamo che avevo quattordici anni): Johnny Rotten con il suo «».1 Più che le imprecazioni in quanto tali, però, erano la veemenza e la virulenza con cui Rotten scandiva le parole: quei percussivi, il ghigno satanico con cui arrotava le in . La validità del portato socioculturale del movimento è già stata riconosciuta da migliaia di opinioni ben meditate, ma a essere davvero sinceri non si può ignorare che la mostruosa del punk rappresentava una parte fondamentale del suo fascino. La nefandezza dei Devo, per esempio: un amico molto più maturo di noi portò a casa «Jocko Homo/Mongoloid», uno fra i primi loro singoli pubblicati dalla Stiff. Era la cosa più raccapricciante e degradante che avessi mai ascoltato.

Quando conobbi i Pistols e compagnia bella, attorno alla metà del 1978, non avevo idea che quell’universo fosse ufficialmente «morto». I Pistols si erano sciolti da un pezzo, e Rotten aveva già fondato i Public Image Ltd. Essendo stato così distratto da perdere del tutto nascita, vita e morte del punk, pensai bene di farmi sfuggire anche il conseguente lutto: il terribile schianto del ’78 sperimentato da quasi tutti coloro che «c’erano» durante l’entusiasmante corsa del ’77. La mia scoperta tardiva di quel movimento coincise con la ripresa delle attività, quello che presto sarebbe stato battezzato «post punk», l’argomento di questo libro. Eccomi dunque ad ascoltare degli X-Ray Spex, ma anche il primo album dei PiL, dei Talking Heads e delle Slits. Era tutta un’ondata, abbagliante, esplosiva ed elettrizzante.

Gli storici della musica celebrano l’importanza di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: momenti e luoghi cruciali, dove e quando le rivoluzioni prendono piede. Il che non lascia molta speranza a noialtri, confinati in periferia o in provincia. Questo libro è dedicato a (e parla di) coloro che non si trovavano nel posto giusto al momento giusto (nel caso del punk, a Londra e New York attorno al 1976), ma che ciononostante si rifiutavano di credere che fosse tutto morto e sepolto prima che fosse loro concessa la chance di partecipare.

I giovani hanno il diritto biologico di godere dei tempi in cui vivono. Se sei davvero fortunato, la tua smania ormonale è simultanea all’affermarsi della nuova era: il bisogno tipicamente adolescenziale di meraviglia e fede, in altre parole, coincide con un periodo di oggettiva abbondanza. I primi anni del post punk (fra il 1978 e il 1982) furono proprio questo: una . Mi ci sono avvicinato altre volte, ma non ho più ritrovato l’euforia di quel momento. Di sicuro, non sono più stato altrettanto concentrato sul presente.

A ripensarci adesso, non compravo dischi vecchi. E perché avrei dovuto? C’erano così tanti dischi nuovi da avere davvero che non esisteva una sola ragione al mondo per mettersi a studiare il passato. Avevo il meglio dei Beatles e degli Stones su cassetta, duplicato dai miei amici, e una copia di , l’antologia dei Doors. Nient’altro. Ciò era parzialmente dovuto al fatto che la cultura delle ristampe, da cui oggi siamo travolti, all’epoca non esisteva; le case discografiche arrivavano addirittura a gli album dal loro catalogo. Di conseguenza, enormi fette del passato recente rimanevano praticamente inaccessibili. La ragione principale, però, era che mancava il tempo di rievocare con nostalgia un’età che non avevi vissuto. Troppe cose succedevano qui e ora.

All’epoca non la vedevo in questi termini ma, col senno di poi, in quanto stagione peculiare della cultura pop, il periodo dal 1978 all’82 rivaleggia con i favolosi anni fra il 1963 e il 1967, comunemente noti come . L’era post punk compete senza dubbio con quanto alla mole di musica splendida prodotta, allo spirito d’avventura e idealismo di cui era intrisa e al legame inestricabile che sembrava unire la musica alla turbolenza politica e sociale del tempo. Ad assimilare i due periodi era l’impazienza mista all’ansia, la mania per tutto ciò che era nuovo e futuristico unita alla paura di ciò che il futuro aveva in serbo.

Non che io sia particolarmente patriottico, ma è difficile ignorare come gli anni Sessanta e il post punk siano state epoche in cui la Gran Bretagna ha giocato un ruolo predominante nella scena pop. Ecco perché questo libro si concentra sul Regno Unito, fatta eccezione per le città americane dove il punk ha lasciato il segno: New York e San Francisco, le capitali gemelle dell’universo alternativo; Cleveland e Akron, centri nevralgici postindustriali nell’Ohio; città universitarie come Boston, nel Massachusetts, e Athens, in Georgia. (Per ragioni di spazio e salute mentale, ho deciso a malincuore di tralasciare il post punk europeo e l’affascinante ma stratificata scena underground australiana, salvo alcuni gruppi fondamentali come DAF, Einstürzende Neubauten e Birthday Party, che hanno esercitato un impatto significativo sulla cultura rock angloamericana.) In America, punk e post punk erano molto meno in voga che nel Regno Unito, dove i Fall e i Joy Division passavano nelle radio nazionali e gruppi estremi come i PiL piazzavano nella Top 20 successi che, tramite , irrompevano in dieci milioni di case.

I motivi che mi hanno portato a scrivere questo libro sono tanto personali quanto oggettivi. Tra questi ultimi il principale è il fatto che il post punk sia un periodo clamorosamente ignorato dagli storici della musica. I testi sul punk e la scena del 1976-7 si contano a decine, ma su ciò che accadde dopo non esiste praticamente nulla. Per convenzione, la fine del punk viene fatta coincidere con la sua «morte» nel 1978, l’anno in cui i Sex Pistols si autodistrussero. Le cronache più estreme o affrettate lasciano intendere che nulla di rilevante sia venuto alla luce fra e , fra il punk e il grunge. Neppure il boom nostalgico degli anni Ottanta ha aiutato quel decennio a scrollarsi di dosso l’etichetta di terra desolata, redenta solo da cani sciolti come Prince o i Pet Shop Boys e da personaggi di spicco come i REM o Springsteen. I primi Ottanta, in particolare, sono tuttora visti come un’epoca di pagliacci effeminati, una stagione caratterizzata da goffi e pretenziosi tentativi di realizzare «video artistici» da parte di bellimbusti inglesi tutti eyeliner e sintetizzatori con acconciature ridicole. Frammenti del post punk sono emersi qui e là, generalmente nelle biografie di singoli gruppi, ma nessuno ha mai provato a tracciare un quadro generale, catturando il post punk per ciò che era: una controcultura frammentaria eppure accomunata dalla convinzione che la musica potesse, e dovesse, cambiare il mondo.

Con tutta l’imparzialità e il distacco di cui sono capace, credo di poter affermare che l’«onda lunga» del punk fino al 1984 sia più interessante dello stesso biennio 1976-7, l’entrata in scena del punk con il suo ritorno alle radici rock’n’roll. Anche in termini di influenza culturale su scala maggiore, non è azzardato sostenere che le ripercussioni più stimolanti del punk siano emerse ben dopo il suo presunto decesso. È questa una delle tesi del libro: i movimenti rivoluzionari della cultura pop esercitano il loro impatto più ampio quando il loro «slancio» si esaurisce, nel momento cioè in cui le idee escono dalle élite alternative metropolitane e dalle conventicole intellettualoidi di cui originariamente erano esclusivo appannaggio per diffondersi a livello periferico e regionale. La controcultura e le idee radicali degli anni Sessanta, per esempio, erano molto più in voga durante la prima metà dei Settanta, quando portare i capelli lunghi e assumere droghe divenne pratica comune, quando il femminismo penetrò nella cultura popolare attraverso film e programmi televisivi sulle «donne indipendenti».

Un altro motivo oggettivo per scrivere questo libro è la recente ripresa dell’interesse per l’epoca, con le compilation e le ristampe del post punk d’archivio, e la messe di nuove band che hanno preso a modello sottogeneri del post punk come no wave, punk-funk, mutant disco e...



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