Rossanda / De Cristofaro | Aperte lettere | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Extrema ratio

Rossanda / De Cristofaro Aperte lettere

Saggi critici e scritti giornalistici
1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-017-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Saggi critici e scritti giornalistici

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Extrema ratio

ISBN: 979-12-5480-017-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Tra i grandi protagonisti del dibattito civile e politico del '900, Rossanda Rossanda è stata anche una voce originale e influente nel campo della critica culturale e letteraria, sia con generosi interventi 'a caldo' dalle colonne del suo manifesto, sia con ampie introduzioni e prefazioni a classici molto amati. Aperte lettere raccoglie per la prima volta i suoi scritti letterari più significativi e memorabili. Con uno stile aguzzo e vivido che 'rincorre nell'argomentazione i circuiti del pensiero', come scrive il curatore Francesco de Cristofaro, Rossanda non fa sconti e possiede un vero talento nel rileggere a contropelo libri, figure letterarie, protagonisti della cultura, mostrando come la critica sia anche 'disobbedienza' e scomoda testimonianza (è il caso del suo amato Fortini, che 'giace insepolto fuori dalle mura'). Che si tratti di discutere l'etichetta 'femminile' o 'femminista' applicata a Emily Dickinson oppure di evidenziare come l'ironia 'virile' di Thomas Mann si rovesci in strazio davanti alla feroce ambiguità della natura; che riveli come Tolstoj abbia amato l'insubordinata Anna Karenina per poi punire con la sua morte una parte di se stesso o come il contrasto tra etica e diritto si incarni in quello tra Antigone e Creonte; che demolisca Le tre ghinee di Woolf mostrando la contraddizione irrisolta che abita il testo, o demistifichi attraverso Sartre l'illusione di libertà dell'intellettuale, o contesti in controtendenza la visione rinunciataria de La Storia di Elsa Morante, Rossanda legge anche al rovescio il canone della letteratura.

Rossana Rossanda (1924-2020) è stata una figura di primo piano della sinistra italiana. Deputata, giornalista, responsabile della politica culturale del PCI negli anni '60, ha co-fondato il manifesto. Autrice di numerosi saggi sulla politica e sulla società (tra cui L'anno degli studenti, De Donato 1968; Le altre, Bompiani 1979; Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri 2018), ha pubblicato anche scritti autobiografici (come Un viaggio inutile, Einaudi 2008) e il romanzo La ragazza del secolo scorso (Einaudi 2005).
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Tre domande su Emily Dickinson


Mi pare impossibile, e in ogni caso inutile, leggere Emily Dickinson sia in chiave “femminile” sia in chiave “femminista”. Non femminile, almeno nel senso che a questo volete dare, perché i suoi lezi sono scarsi e i suoi orizzonti, se mai, metafisici: le sue poche svenevolezze sembrano piuttosto strofe d’occasione, che si perdono nell’aspro insieme del materiale lavorato, rilavorato e mai trascelto che essa lasciò. Perfino la sua vena d’amore, che nelle raccolte occupa più spazio di quel che ebbe in realtà, è poco femminea, tanto scarsi sono gli abbandoni e i lamenti, e così luciferesco il dolore liberamente scelto, idealmente prendendosi un uomo non suo e tale considerandolo per quasi trent’anni, attraverso men che rari incontri: una scelta di testa. “Quanto contorta / l’autodisciplina dell’uomo / che lo costringe a scegliersi / con le sue stesse mani / i dolori cui è stato destinato in precedenza”. Né è femmineo il suo rapporto con dio, questa “eclisse che gli uomini chiamano padre”, intriso di scetticismo, ironia e rivolta: Padre nostro che sei nei cieli, perdonaci per la tua duplicità. Non è femmineo il suo rapporto con la natura, faccia visibile dell’eclisse, la vita e la morte. Non è femmineo il rapporto con le altre donne, cui dedica di passaggio qualche distillato veleno: “Che creature dolci e serafiche / sono queste gentildonne. / Ti verrebbe voglia di aggredire piuttosto / della stoffa felpata / o di violare una stella”, eccetera. Mi sa che non debba vedersi come femminile neppure il suo girare tutta la vita vestita di bianco e con i gigli in mano, come la cantante di : doveva parere, alle gelide e nere signore di Amherst, contestataria come il suo peccaminoso celibato.

Ma non è neanche femminista, se questa parola è impiegata nel suo senso reale. È femminista la donna che riporta le lacerazioni del mondo e il suo disagio all’antagonismo maschio-femmina, cosa che alla Dickinson non passò mai per la testa. I suoi interlocutori sono stati sempre gli uomini, almeno in quel che le premeva: il famoso reverendo che amò, cui si sentì trascendentalmente sposata, senza anello ma con regolare sigillo, e preclusa, e lui precluso a lei, in una versione meno boschereccia e meno oltranzista della ; i suoi mentori mediocri, il fratello. I concetti metafisici non hanno sesso, ma il loro neutro è un concentrato, direbbero le femministe, della mascolinità: e con essi Emily fu perfettamente a suo agio.

Naturalmente, uno psicanalista può anche stendere la Dickinson sul suo sofà (del resto, ci fu chi lo fece) e spiegarci come i versi di questa vecchia ragazza, scettica ma inibita figlia di puritani, siano la testimonianza d’una frustrazione, d’una nevrosi, forse a momenti d’una psicosi, da riportare alle condizioni d’una vergine suo malgrado nel quadro soffocante del New England. Ma non ci spiegherà perché da questo destino, comune a molte altre, Emily uscì con i suoi versi. Ci dirà quel che sappiamo, che era una donna.

Alla stessa stregua, una femminista vera potrà spiegarci come essa sia soggiaciuta al modello intellettuale maschile: la cultura, si sa, è maschio, e figurarsi cosa doveva essere ad Amherst nella seconda metà del secolo scorso. Avrà, la femminista, sicuramente ragione, espungendola dalle file d’un qualsiasi militantismo.

Resta da capire perché la frustrazione e la subordinazione portarono Emily a scrivere quel che scrisse; anzi, più modestamente, da capire che cosa realmente scrisse nella sua lettera al mondo. Altre donne infatti sfuggirono a certi modelli di vita scrivendo: anzi, negli stessi anni furoreggiavano in letteratura alcune signore, come Susan Warner o Maria Cummins, che facevano impazzire Hawthorne (“le orrende scrivacchine”) perché i loro romanzetti tiravano dieci volte più dei libri suoi, per non parlare di Melville o di Whitman, il quale pubblicò addirittura a sue spese. Con queste signore Emily Dickinson non ha nulla a che vedere. Il suo destino non è specificamente di donna, è un destino specificamente intellettuale, e così va letta.

Non so bene che cosa significhi per la poesia fare i conti con la storia. So appena che fare i conti con la poesia significa mettere in causa la “coscienza di sé” delle classi dominanti, sempre; anche dopo la rivoluzione. Ma questo chi può farlo, se non quello che è volta a volta il proletariato? E qui si apre il capitolo, inaugurato da Lukács, delle difficoltà relative.

Ma lasciamo stare. Prendiamo due poeti non reclusi, non virginali ed estroversi, in pubblico e in privato: Emerson e Whitman. Fecero i conti, loro, con la storia e gli anni non tranquilli? Tessero i fili della coscienza democratica americana e non sapevano, poveretti, che erano per così dire i nonni della filosofia del “mondo libero”: l’individualismo, lo sviluppo, l’ottimismo, la certezza dei principi. Si occuparono del “sociale”, come si dice oggi: di cui Emily invece si disinteressò. Ma è sicuro che la loro inserzione nell’impetuoso sviluppo del capitalismo sia stata più lucida che non la negazione e l’acuta conflittualità dell’altro versante della cultura di quegli anni, il peccato e la Bibbia e il destino di Emily, di Hawthorne, di Melville?

È ben difficile piazzare la Dickinson fuori della storia. Anche per chi, come me, crede che la sua vena più profonda sia quella metafisica, come immaginarla cinquant’anni prima o dopo e fuori di Amherst, New England? Cinquant’anni prima non sarebbe stata così furiosamente scettica, cinquant’anni dopo gliene sarebbe importato di meno. E se non fosse stata americana, sarebbe stata capace di queste concisioni e rotture di linguaggio, che la rendono pressoché intraducibile, tanto le altre lingue la diluiscono e appiattiscono? È inchiodata in quegli anni all’orizzonte di , che probabilmente non lesse, e della , che lesse di sicuro. È una protestante americana allo stato parossistico. In questo senso si potrebbe sostenere, rifacendosi a un metodo che a lungo è stato caro ai critici marxisti, che “riflette” più di altri non solo la storia, ma il suo meccanismo più profondo, l’atomizzazione e frantumazione d’ogni rapporto interumano reale. Spingendo lo stesso metodo un po’ più in là, si potrebbe con qualche diritto sostenere che se il suo modo di essere, oltre che una delle sue locuzioni ricorrenti, è un infinito sgomento di fronte alla certezza della lacerazione fra se stessa e dio e il mondo (, angoscia), ebbene, c’era di che sgomentarsi. Lo scetticismo di Emily vedeva più chiaro, e sarebbe stato in futuro meno colpevole che non la baldanza whitmaniana.

A dir la verità, a me il misurare con questo metro l’inserzione nella storia non interessa molto: se ne può tirar fuori di tutto e il contrario di tutto. Più mi pare interessante vedere, anche nella Dickinson, quel reagire alla storia che è proprio degli intellettuali. I quali hanno, per esempio, una maniera tutta loro di “subire” il mondo o esiliarsene. “Subiscono”, in genere, con la persuasione che sono loro a capire i ciechi meccanismi che li rifiutano e cui quindi lanciano perentori messaggi; Emily Dickinson in questo senso è un modello. Non inganniamoci: quando scrive “Questa è la mia lettera al mondo che non ha mai scritto a me”, non è una fanciulla afflitta perché non riceve posta, è un fiero cervello che dà al mondo il voto, insufficiente. Per questo si è insediata in quella sfera, che è parallela a esso, ed è la cultura; e di là conduce fitti dialoghi o, in mancanza di meglio, sicuri monologhi.

Questa è la chiave, a me pare, della sua opera e forse della sua stessa vita. Altra cosa è una solitudine che tace, altra una solitudine solitamente consentita da qualche rendita, che emette duemila poemi e diverse migliaia di lettere – è un . Altra è la pena patita, altra la pena detta: una volta che uno ha scritto: “Questa è l’ora di piombo”, già di piombo non è più; alla pesantezza dell’esistente si è sfuggiti per la tangente d’una padroneggiata forma, che gli si oppone e lo sostituisce. Emily lo sa benissimo, lo dice, scrive e mette in versi, che la parola è il suo mestiere e la sua arma; non solo, ma è incline a credere che sia tutta l’esperienza, se “esperienza” ha un senso. Dura, faticosa, dolorosa, ma dominata; la sua vita è nelle sue mani. In questa certezza che coscienza e realtà possono coincidere nella forma, essa si installa: non vedo in questo nessuna virginale né domestica reclusione, ma un orgoglio intellettuale ed illimitato, e del resto da altri, soli secondo la sua stessa maniera, condiviso. E una grande disciplina, naturalmente,...



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