Schalansky | Inventario di alcune cose perdute | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 252 Seiten

Schalansky Inventario di alcune cose perdute


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-800-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 252 Seiten

ISBN: 978-88-7452-800-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
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La Storia del mondo è piena di cose che sono andate perdute, smarrite nel corso del tempo o distrutte intenzionalmente, a volte semplicemente dimenticate - o magari, come si racconta nell'Orlando furioso, volate in un archivio sulla Luna. Inventario di alcune cose perdute è una raccolta di dodici storie, ciascuna dedicata a una cosa che non c'è piú: narrazioni sospese in un delicato equilibrio tra presenza e assenza, fotografie ben a fuoco ma stampate con inchiostro scuro su carta scura, piccole realtà che solo l'immaginazione è in grado di riportare alla memoria. Si va da Tuanaki, un'isoletta indicata su vecchie mappe che ormai giace sotto il livello del mare, alla tigre del Caspio, il cui ultimo esemplare impagliato andò distrutto in un incendio; dallo scheletro di un presunto unicorno, nascosto chissà dove, a Kinau, un selenografo tedesco dell'800 di cui pare nessuno sappia nulla, fino alle misteriose lacune dei carmi amorosi di Saffo, che custodiscono ipotesi e segreti. Come aveva già fatto nel suo Atlante delle isole remote, in questo libro Judith Schalansky gioca a ricreare mondi del passato a partire da pochi frammenti, si cala nei contesti, nei linguaggi, coglie di volta in volta gamme di colori e sensazioni, restituendo a ogni cosa anche il piú piccolo dettaglio, storico o visionario che sia.

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Isole Cook del Sud


TUANAKI


anche chiamata Tuanahe


* L’atollo si trovava a circa 200 miglia marine a sud dell’isola di Rarotonga e a circa 100 miglia marine a sud-ovest dell’isola di Mangaia.

Tuanaki dev’essere stata inghiottita dall’acqua nel corso di un maremoto a cavallo tra il 1842 e il 1843, poiché nel giugno del ’43 i missionari presenti in quella zona non riuscirono piú a localizzare l’isola. L’atollo fu cancellato da tutte le carte nautiche solo nel 1875.

Era una giornata d’aprile di esattamente sette anni fa, luminosa e senza un filo di vento, quando su un mappamondo della sezione cartografica della Staatsbibliothek scoprii un’isola chiamata Ganges, della quale fino a quel momento non conoscevo l’esistenza. L’isoletta solitaria si trovava a nord-est del nulla nell’Oceano Pacifico, sulla scia della potente Kuroshio, una corrente oceanica che s’increspa di un blu tendente al nero e che instancabilmente sposta verso nord calde masse d’acqua salata dall’isola di Formosa lungo l’arcipelago giapponese, come un punto di fuga immaginario a nord delle catene insulari delle Marianne e delle Hawaii – di cui l’ultima, perlomeno su quella sfera di gesso e cartapesta finemente stampata, grande all’incirca come la testa di un bambino, portava ancora il nome di John Montagu, quarto conte di Sandwich. Attratta dal nome familiare e dalla posizione insolita feci delle ricerche, e queste rivelarono che vicino alle coordinate 31° N e 154° O per due volte era stata avvistata una scogliera, e per quattro volte era stata perfino avvistata terra, l’esistenza della quale fu però da molti e continuamente messa in dubbio, finché il 27 giugno del 1933 una schiera di idrografi giapponesi, dopo aver attentamente ispezionato la regione in oggetto, aveva annunciato la scomparsa ufficiale di Ganges, senza che il mondo desse eccessiva importanza a quella perdita.

I vecchi atlanti effettivamente riportano l’esistenza di innumerevoli isole fantasma che, tanto piú frequentemente quanto piú le carte diventavano precise lasciando meno spazio all’inesplorato, i navigatori credevano di scorgere, eccitati dalle ultime macchie bianche, attirati dalla sconfinata desolazione del mare, ingannati dai cieli bassi o da iceberg fluttuanti, nauseati dall’acqua salmastra che erano costretti a bere, dal pane infestato dai vermi e dalla dura carne sotto sale, cosí assetati di terra e di gloria che tutto ciò che bramavano nella loro sconfinata avidità si fondeva in un grumo d’oro luccicante e li spingeva ad annotare nei giornali di bordo nomi misteriosi, con tanto di coordinate realistiche per popolare di presunte scoperte la monotonia dei loro giorni. E cosí nomi come Nimrod, Matador o le Aurora fecero il loro ingresso nelle carte nautiche, audaci caratteri corsivi accanto ai profili appena abbozzati di quei pezzi di terra sparsi qua e là.

Non furono però quelle affermazioni a lungo inconfutate a catturare il mio interesse, bensí quelle isole di cui numerosi racconti dimostrano la passata esistenza e la successiva scomparsa e, tra tutte queste testimonianze, soprattutto quelle che descrivevano l’isola sommersa di Tuanaki, un nome che ricorda una parola magica portata via dal vento, la cui sonorità è certamente tra le ragioni del mio interesse, mosso però in particolar modo da una curiosa notizia circa gli abitanti di quest’isoletta, secondo la quale a loro era del tutto sconosciuta la pratica della lotta, e la parola guerra era ignota in tutte le sue accezioni negative, cosa che io, riaccesosi in me un residuo di speranza sepolto dai tempi dell’infanzia, fui subito pronta a credere vera, anche se al tempo stesso mi ricordava i sogni utopici di molti trattati, i quali osavano sostenere niente di meno che fosse possibile un mondo diverso, ma che in generale esso – come dimostravano le descrizioni spesso prolisse dei loro ordinamenti sociali sempre piú sofisticati e quindi ostili alla vita – fosse solo in teoria da preferire a quello esistente. Consapevole di essere in malafede, cercai allora, come molti prima di me, una terra che non conoscesse la memoria, ma solo il presente, un paese in cui dimenticare violenza, miseria e morte, dove queste fossero sconosciute. Cosí mi apparve Tuanaki, persino un po’ piú maestosa di come le fonti la descrivono – un atollo formato da tre isole che si stagliano leggermente sul livello del mare, nelle acque basse e ricche di pesci di una laguna scintillante di un azzurro latteo, protetto da una barriera corallina dalla violenza dei frangenti e dalle assillanti maree, coperto di palme da cocco alte e snelle e rigogliosi alberi da frutto, abitato da una razza straordinariamente amichevole e amante della pace. In poche parole: un luogo magnifico, che per semplificare mi immaginavo come il paradiso, diverso dal suo tanto lodato archetipo solo per il fatto, sottile ma decisivo, che nei frutti dei suoi alberi non vi era nessuna conoscenza, se non la verità evidente che fosse piú vantaggioso rimanere che andarsene, dato che, constatai presto con stupore, a quelle latitudini il giardino dell’Eden era un rifugio e non un luogo dal quale essere cacciati.

Eppure le notizie su quell’improbabile lembo di terra erano appena sufficienti per dimostrare in modo credibile la sua esistenza passata, anche se nessun cronometro registrò mai la sua posizione esatta, poiché né Tasman, né Wallis, né Bougainville, e nemmeno il capitano di una baleniera uscita di rotta avevano mai avvistato le sue dolci sponde. Esaminai piú e piú volte i percorsi delle grandi spedizioni nei mari del Sud, seguii le linee tratteggiate e punteggiate attraverso il reticolo dei gradi sul mare di carta e confrontai le rotte con la presunta posizione dell’isola, che con un vago sentimento imperialistico avevo evidenziato nel quadrato piú in basso, rimasto vuoto.

Non v’erano dubbi: l’esploratore celebrato ancora oggi da un piccolo continente come il piú grande dei navigatori giunti in ogni angolo del mondo, durante il suo terzo e ultimo viaggio, doveva aver mancato Tuanaki solo per poco; le sue due navi, un tempo varate come cargo pieni di carbone nella nebbia di Whitby, nell’arco del 27 marzo 1777 dovevano aver veleggiato a poca distanza dal suo orizzonte – a vele spiegate, maestose come fregate in tutto il loro splendore. Era passato piú di un mese da quando la Resolution, sulla quale James Cook prestava servizio da anni, e la piú recente e agile nave scorta Discovery, mentre si alzava una brezza leggera avevano mollato gli ormeggi in una baia dello stretto neozelandese di Queen Charlotte, dov’erano di stanza, e avevano passato lo stretto che porta il nome del loro capitano. Due giorni dopo si erano finalmente lasciate alle spalle le colline di Port Palliser, che nella foschia mandavano bagliori di un verde quasi nero, per poi fare rotta sul mare aperto. Ma i venti erano avversi. A brezze fresche e mutevoli seguivano deboli venticelli, violente raffiche di vento e pioggia si alternavano a strazianti bonacce. Neanche la corrente di deriva dei venti dell’Ovest, che avrebbe dovuto spingerli con consueta costanza verso nord-est, sul meridiano di Otaheite, veniva in loro soccorso, a dispetto delle previsioni tipiche della stagione, allontanando sempre piú minacciosamente il piú vicino punto d’approdo. Avevano già perso molto tempo. E ogni giorno che passava si affievoliva la speranza di navigare lungo le coste della Nuova Albione entro la prossima estate del Nord per riuscire a entrare nel tanto evocato passaggio di mare che sulle carte imperfette dell’epoca prometteva l’agognata scorciatoia tra il Pacifico e l’Atlantico. Infatti il sogno di un passaggio navigabile, seppur ristretto dal pack, era vecchio e ostinato come lo sono tutti i sogni dei cosmografi, ed era diventato ancor piú nitido da quando invece era sfumato quello di un gigantesco continente del Sud, dopo che Cook, alla ricerca della terra leggendaria, aveva solcato in lungo e in largo i mari del Sud percorrendo immensi tragitti senza scorgere altro che montagne di ghiaccio.

Cosí le due navi sciabordavano a vele sgonfie, e su di loro iniziò a calare un silenzio rintronante, che nulla aveva in comune con quello pacifico e riservato della mia esistenza trascorsa in biblioteca. Ogni tanto però riuscivo a sentire il rimbombo cupo e lungo della risacca, il cielo sereno che pareva deriderli, la litania incessante delle onde che si increspano e scemano all’infinito, che un tempo aveva indotto Magellano a chiamare quell’oceano “Pacifico”, una consonanza spettrale, il rumore impietoso dell’eternità, piú spaventoso ancora di quello della tempesta piú furibonda, di cui dopotutto si ha la certezza che prima o poi passerà.

Ma quel mare non era né pacifico né silenzioso, nelle sue oscure profondità forze indomabili aspettavano solo il momento di tornare in superficie. Il suo fondale era pieno di crepe e solchi, la crosta terrestre frastagliata di fosse e montagne, cicatrici non rimarginate di un’epoca preistorica in cui i continenti ancora indivisi, fluttuando nell’oceano come un’unica massa, si erano staccati l’uno dall’altro a causa di forze straordinarie ed erano stati sospinti nel mantello terrestre, finché le loro piattaforme si erano stratificate verso l’alto e verso il basso, sottoterra in ripidi abissi e sopra in vette spoglie, piegate alle leggi di natura che non conoscono né grazia né giustizia. L’acqua aveva sommerso i coni vulcanici e miriadi di coralli avevano popolato i bordi dei crateri per costruire scogliere alla luce del sole, gli scheletri dei nuovi atolli, sul cui fertile terreno prosperavano i semi dei rami portati a riva, mentre i vulcani spenti si erano inabissati nel buio e remoto fondale, al...



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