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E-Book, Italienisch, 450 Seiten

Smith Traffic

La corsa ai clic e la trasformazione del giornalismo contemporaneo
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-81729-08-7
Verlag: Altrecose
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

La corsa ai clic e la trasformazione del giornalismo contemporaneo

E-Book, Italienisch, 450 Seiten

ISBN: 979-12-81729-08-7
Verlag: Altrecose
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Nei trent'anni di storia del giornalismo online è successo di tutto, ai giornali e a noi lettori, al modo in cui ci informiamo e siamo raggiunti dalle notizie e da tutto quello che esce dai nostri smartphone. Traffic racconta questi cambiamenti attraverso una storia vera, avvincente nella sua unicità e insieme modello degli sviluppi tuttora in corso. Il racconto comincia a SoHo nei primi anni Duemila, dopo la bolla delle dot-com ma prima che Google, Apple e Facebook si impossessassero della scena. È a New York che il gruppo di nichilisti guidato da Nick Denton a Gawker e lo staff più spensierato di Jonah Peretti a BuzzFeed si dedicano agli esperimenti che creeranno la viralità su internet. È l'età dell'innocenza creativa del giornalismo online: la vecchia guardia dell'informazione è stata screditata dalla guerra in Iraq, il mondo digitale crede di poter diffondere la verità. Dopotutto, non sono forse stati gli attivisti online a far eleggere Barack Obama? Ben Smith, innovativo direttore diBuzzFeed News e oggi direttore del sito Semafor, descrive priorità e approcci rivoluzionari e racconta il grande flop del nostro tempo: internet, che avrebbe dovuto aiutare le forze progressiste a rendere il mondo più libero ed equo, è diventata la forza motrice del populismo di destra - quello di Steve Bannon, di Andrew Breitbart e di Chris Poole, il creatore di 4chan. Una storia avvincente e illuminante, per sapere di più su cosa sta succedendo e su come ci viene raccontato.

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1. La scommessa


Jonah Peretti e Cameron Marlow, il suo migliore amico ai tempi del corso di specializzazione a Cambridge, Massachusetts, scommettevano su tutto. Scommettevano su chi avrebbe vinto una partita di basket, o se Jonah sarebbe riuscito a saltare in cima a un muro alto fino al petto. La posta era sempre di due dollari. I continui battibecchi di quei due dottorandi magrolini con i capelli castani sempre spettinati che gironzolavano per il campus del Massachusetts Institute of Technology cercando di spuntarla l’uno sull’altro erano oggettivamente fastidiosi. Si erano conosciuti lì nell’autunno del 1999: Cameron, ventidue anni, fresco di università, era uno degli studenti più giovani del nuovo corso al Media Lab dell’MIT, e per questo doveva sempre farsi valere. Jonah ne aveva venticinque. Le sue idee di sinistra e la sua giovialità californiana non bastavano a nascondere il suo carattere così competitivo.

Era quindi inevitabile che il 5 gennaio 2001, quando Jonah riuscì per la prima volta a diventare virale, veramente virale, il suo amico e rivale non gli permettesse di sedersi su quegli allori. Cameron disse che era stata soltanto fortuna: internet era troppo aleatorio, la cultura della rete troppo imprevedibile, perché potesse ripetere una cosa del genere. «Scommettiamo due dollari», propose automaticamente Jonah. Avrebbe passato i vent’anni successivi a cercare di vincere quella scommessa.

Il 5 gennaio del 2001 era un venerdì, un giorno freddissimo a Cambridge. Era l’ultimo anno del Secolo americano, l’illusione della fine della storia, quando gli intellettuali si interrogavano preoccupati sul ruolo dei giovani americani, che rischiavano di annoiarsi ora che avevano disintegrato l’Unione Sovietica ed erano diventati padroni del mondo. Jonah, con il suo fisico asciutto e il passo molleggiato come se stesse per spiccare il volo, aveva compiuto ventisette anni il giorno di capodanno. Lui e Cameron, dai loro uffici con vista sul Cube, la struttura a vetri al centro del Media Lab, stavano disegnando il futuro digitale. Cameron lavorava alla digitalizzazione dei vecchi numeri della rivista . Nell’ufficio accanto, Jonah avrebbe dovuto completare il progetto di ricerca sull’istruzione grazie al quale, da responsabile di un laboratorio informatico in una scuola di New Orleans, era stato ammesso all’MIT. Ma in realtà stava guardando le sneakers sul sito della Nike.

Il sito permetteva ai clienti di personalizzare le scarpe. Jonah scelse un paio di Zoom XC da corsa, misura dieci, e digitò «fuck» nella casella bianca in cui si poteva aggiungere una parola a propria scelta. Il sito la rifiutò. Per testare quanto il sistema fosse sofisticato, provò con «sweatshop»: funzionò, così Jonah pagò cinquanta dollari con la carta di credito e rimase in attesa delle sneakers.

Al posto delle scarpe, però, ricevette un’e-mail dalla Nike: la sua richiesta violava le politiche aziendali, in particolare quella contro il «gergo inappropriato».

Jonah rispose facendo notare che «sweatshop» era un termine che «rientra nell’inglese standard», definito dal dizionario Webster «fabbrica nella quale i dipendenti sono costretti a lunghi orari di lavoro con salari bassi e in condizioni malsane».

Ricevette un altro cortese rifiuto. Di certo non gli dispiaceva fare la parte del piantagrane, così continuò a insistere. Dopo la settima e-mail da parte della Nike, Jonah fece un’ultima richiesta: «Potreste inviarmi una fotografia a colori della bambina vietnamita di dieci anni che fabbrica le mie scarpe?»

Fu la fine della sua corrispondenza con i cortesi addetti al servizio clienti della Nike. Jonah era compiaciuto della sua bravata e, in particolare, della frase sulla bambina vietnamita, così riordinò tutto lo scambio di e-mail con la Nike e lo inviò a , sperando di poter raggiungere quello che a quei tempi era l’apice del successo e della visibilità per una cosa del genere: la rubrica , una raccolta mensile – su carta! – di estratti bizzarri e d’attualità. La rivista lo respinse, così lui, il 15 gennaio, inoltrò le e-mail a dieci amici. E qualcuno di loro le inoltrò a sua volta: il tipico passatempo da perdigiorno antiglobal che spopolava nel clima di autocompiacimento della fine dell’era Clinton. Il 17 gennaio, l’ex coinquilino di Jonah a New Orleans, Tim Shey, pubblicò il testo dello scambio sul suo sito personale, una di quelle cose che la gente cominciava a chiamare «blog». E poi lo ripresero siti più grandi, come e . Nelle settimane successive quelle e-mail viaggiarono da una casella di posta all’altra, una piccola ma coinvolgente forma di protesta contro le multinazionali. Ben presto Jonah cominciò a ricevere e-mail dai giornalisti della carta stampata e, poco dopo, un invito al più importante programma televisivo mattutino d’America, il .

Il 28 febbraio 2001, appena sei settimane dopo aver inoltrato quella prima e-mail, Jonah sedeva irrequieto su un divano grigio del Rockefeller Center con una giacca di lana grigia di Calvin Klein troppo larga sulle spalle e non abbastanza lunga per le sue lunghe braccia. Non aveva la minima idea di dove guardare o di cosa dire, ma raccontò alla conduttrice Katie Couric di aver letto sui giornali alcune cose negative sulle pratiche aziendali della Nike. Era tutto quello che aveva da dire: stava improvvisando, non sapeva quasi niente di sweatshop e temeva che Couric si rendesse conto della sua insicurezza. Lei però gli venne in soccorso leggendo la sua affermazione sul lavoro minorile in Vietnam a un portavoce della Nike che li aveva raggiunti in collegamento video da Phoenix. Anche il portavoce cercò di fare buon viso a cattivo gioco, difendendo le condizioni di lavoro nella sua azienda e, con l’occasione, ringraziando Jonah per aver richiamato l’attenzione sull’iniziativa online della Nike.

«Il traffico e le interazioni tra la Nike e i consumatori sono aumentati del 75 per cento in alcune categorie e del 100 per cento in altre», dichiarò spavaldamente il portavoce, che esibiva sulla maglietta nera attillata il celebre baffo Nike. «Ormai sono sicuramente in molti a sapere che le nostre scarpe si possono personalizzare».

Couric ringraziò i suoi ospiti e passò al segmento successivo, un’intervista con Heather Locklear, la star di . Jonah lasciò lo studio televisivo sentendosi un impostore. All’MIT non si occupava di economia, relazioni internazionali o diritto del lavoro. Non sapeva nulla degli sweatshop. Quello che stava studiando era la stessa cosa su cui si era concentrato il portavoce della Nike: il traffico su internet. E alla fine Jonah avrebbe dedicato la sua intera carriera a raccogliere e quantificare i dati sul traffico, immergendosi nei suoi modelli e nel suo potere, che poteva servire tanto a chiamare in causa la Nike sulle condizioni di lavoro nelle sue fabbriche quanto, semplicemente, a vendere scarpe da ginnastica.

Il traffico non era altro che il conteggio delle richieste inviate dal computer su cui qualcuno stava leggendo un articolo, verso il computer che ospitava quell’articolo. Quando uno degli autori dello show di Katie Couric era andato a leggere il blog di Tim Shey, quella visita contava come una visualizzazione, l’unità elementare del traffico. Ma il traffico, e Jonah fu tra i primi a scoprirlo, non era solo un automatismo. Il traffico era emozione umana, psicologia, desiderio, curiosità e umorismo. Era più facile rendersi conto di tutto questo se lo osservavi dal punto di vista di un outsider, di un alieno. A Jonah capitava di considerare il comportamento su internet con lo stesso criterio con cui il linguista Noam Chomsky, docente dell’MIT, considerava il linguaggio. Chomsky si era chiesto come un antropologo marziano avrebbe guardato gli esseri umani, e come il nostro linguaggio sarebbe apparso semplice e uniforme agli occhi degli alieni.

Jonah aveva iniziato a studiare gli esseri umani fin dall’asilo, quando sua madre Della l’aveva iscritto a una scuola pubblica di Oakland. Era un bambino allegro e socievole, del tipo che farfugliava di calotte polari davanti agli amici perplessi. Il primo giorno di asilo suo padre andò via di casa. Nel corso dell’anno, Della notò che qualcosa non andava: quel bambino, così interessato alle idee, non aveva alcun interesse per i simboli, in particolare per le lettere. Di lì a poco Jonah venne iscritto a un programma di sostegno scolastico con una diagnosi di dislessia, mentre sua madre, che si stava laureando in Scienze dell’educazione, non dormiva la notte al pensiero del terribile destino dei bambini intelligenti e ribelli che non imparavano a leggere.

A scuola Jonah si sentiva in trappola, isolato tra strani compagni che erano capaci di guardare la lavagna e capirla. Non vedeva l’ora che arrivasse il sabato, quando frequentava un corso di ceramica. L’argilla assorbiva tutta la sua rabbia, il suo desiderio di libertà e la sua intelligenza: capì di poter creare lunghe gambe affusolate e che, costruendoci intorno un mostro gigantesco, l’argilla si sarebbe contratta e avrebbe reso la struttura, alta la metà di lui, sorprendentemente stabile. Alla fine, in quarta...



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