Sontag | L'amante del vulcano | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 504 Seiten

Reihe: Narrativa

Sontag L'amante del vulcano


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-834-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 504 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7452-834-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Nella New York di fine Novecento Susan Sontag decide di scrivere un romanzo dal forte sapore storico, ambientandolo nella Napoli di fine Settecento, metropoli fastosa e disperata alle prese con la Rivoluzione che darà vita alla Repubblica Napoletana. Al centro del racconto un uomo all'apparenza algido e distaccato, animato da un'indomabile passione per il vulcano almeno quanto per l'arte e i ricercati pezzi di antiquariato di cui è collezionista: si tratta dell'ambasciatore inglese Sir William Hamilton, che, tra le altre vicende, si trova coinvolto in un triangolo amoroso che vede in lui uno dei vertici, assieme alla seconda moglie Emma, considerata una delle donne piú belle dell'epoca, e all'ammiraglio Horatio Nelson. Nell'intreccio narrativo le vicende storiche realmente accadute passano attraverso l'immaginazione dell'autrice, diventando vive e creando mondi imprevisti. Sempre presente sullo sfondo del romanzo, il Vesuvio pare simboleggiare la bellezza, l'imprevedibilità, l'inquietante vitalità e la potenza esplosiva delle cose che giacciono sotto la superficie e improvvisamente tornano visibili. Ne L'amante del vulcano, da molti anni introvabile in Italia, Sontag mette in scena lo spettacolo della Storia, filtrandolo attraverso una forte coscienza autoriale.

Sontag L'amante del vulcano jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


Prologo


All’entrata di un mercato delle pulci. Gratuito. Ingresso libero. Folla sciolta. Volpina, festosa. Perché entrare? Cosa ti aspetti di vedere? Vedo. Controllo quel che c’è al mondo. Quel che resta. Quel che è scartato. Quel che non sta piú a cuore. Quel che doveva essere sacrificato. Quel che qualcuno ha pensato potesse interessare a qualcun altro. Ma è ciarpame. Se è lí, qui, è già stato passato al setaccio. Ma potrebbe esserci qualcosa di valore, lí. Non di valore, non proprio. Ma qualcosa che io potrei volere. Volere mettere in salvo. Qualcosa che parli a me. Ai miei desideri. Parli a, parli di. Ah…

Perché entrare? Hai tanto tempo libero? Guarderai. Vagherai. Perderai le tracce del tempo. Pensi di avere tempo a sufficienza. Ci vuole sempre piú tempo di quanto pensi. Poi sarai in ritardo. Te la prenderai con te stessa. Vorrai restare. Sarai tentata. Sarai respinta. Gli oggetti sono insudiciati. Alcuni sono rotti. Mal rabberciati o per niente. Mi racconteranno passioni, fantasie che non ho bisogno di conoscere. Bisogno. Ah, no. Non ho bisogno di niente di tutto ciò. Qualcuno lo accarezzerò con lo sguardo. Qualcuno devo prenderlo, coccolarlo. Mentre sono sorvegliata, abilmente, dai loro venditori. Non sono una ladra. Probabilmente, non sono una compratrice.

Perché entrare? Solo per giocare. Un gioco di riconoscimenti. Sapere cosa c’era e quanto valeva, quanto dovrebbe valere, quanto varrà. Ma forse non per fare un’offerta, mercanteggiare, non per acquistare. Solo per guardare. Solo per lasciarmi andare. Mi sento leggera. Non ho niente in mente.

Perché entrare? Ci sono tanti luoghi come questo. Un campo, una piazza, una galleria, una caserma, un parcheggio, un molo. Potrebbe essere altrove, ma si dà il caso che sia qui. Sarà pieno di ovunque. Ma è qui che io entrerò. Con i miei jeans, la camicetta di seta e le scarpe da tennis: Manhattan, primavera del 1992. Degradata esperienza di pura possibilità. Questo con le sue cartoline di stelle del cinema, quell’altra con il suo vassoio di anelli navajo, questo con la fila di giubbotti da bombardiere della Seconda Guerra Mondiale, quello con i coltelli. Modellini di automobili, piatti di vetro molato, sedie di malacca, cappelli a cilindro, monete romane, e là… una gemma, un tesoro. Potrebbe accadere, potrei vederlo, potrei volerlo. Magari comprarlo per farne un regalo, sí, per qualcun altro. Quanto meno avrei appreso che esisteva, e che era saltato fuori qui.

Perché entrare? È abbastanza quel che c’è? Potrei scoprire che non è qui. Qualunque cosa sia, spesso non sono sicura, potrei riporla sul banco. Il desiderio mi guida. Mi racconto ciò che voglio ascoltare. Sí, è abbastanza.

Entro.

Alla fine di un’asta di quadri. Londra, autunno del 1772. Il quadro nella sua turgida cornice dorata è appoggiato contro la parete al fondo di una grande sala, una Venere che disarma Cupido, ritenuto opera di Correggio su cui il proprietario ha riposto cosí alte speranze – invenduto. Ritenuto erroneamente opera di Correggio. A poco a poco la sala si svuota. Un uomo alto (era alto per quei tempi) dal volto affilato, quarantadue anni, avanza lentamente, seguito a rispettosa distanza da un uomo che ha la metà dei suoi anni e una marcata aria di famiglia. Sono magri entrambi, con la pelle pallida e fredde espressioni patrizie.

La mia Venere, dice il piú vecchio. Confidavo nella sua vendita. C’era tanto interesse.

Ma, ahimè, osservò il piú giovane.

Difficile capirlo, rifletté il piú vecchio, quando i meriti del quadro paiono mostrarsi da sé. È sinceramente perplesso. Il piú giovane lo ascoltava con appropriato cipiglio.

Dal momento che mi addolorava separarmi da lei, presumo di dovermi perfino rallegrare che sia rimasto invenduto, continuò il piú vecchio. Ma il bisogno era pressante, e non considero il prezzo che ho chiesto troppo alto.

Fissò intento la sua Venere. Difficilissimo, proseguí il piú vecchio, riferendosi ora non alla difficoltà di capire perché il quadro non si fosse venduto (né alla fatica di tenere a bada i creditori), ma alla decisione di vendere; perché mi ero invaghito di questo quadro, disse. Poi seppi di doverlo vendere, e cosí mi preparai a rinunciarvi; e adesso che nessuno ha offerto quanto so che vale e resta mio, dovrei amarlo come prima, ma non lo farò, lo scommetto. Avendo smesso di amarlo in modo da venderlo, non posso trovarvi lo stesso piacere, ma se non mi riesce di venderlo voglio amarlo di nuovo. Sarebbe gretto da parte mia ritenere le sue bellezze sciupate da questa disavventura.

Che fare? Quanto amarlo? rifletté. Come amarlo ora?

Penserei, signore, disse il piú giovane, che il solo problema sia dove custodirlo. Sicuramente un compratore si troverà. Ho il vostro permesso di tentare tra quei collezionisti di mia conoscenza forse a voi sconosciuti? Sarei lieto di fare queste discrete indagini dopo la vostra partenza.

Sí, è ora di andare, disse il piú vecchio.

Uscirono.

Alla bocca di un vulcano. Sí, bocca; e lingua di lava. Un corpo, un mostruoso corpo vivente, maschio e femmina insieme. Emette, erutta. È un interno anche, un abisso. Qualcosa di vivo, che può morire. Qualcosa d’inerte che entra in agitazione, di tanto in tanto. Che esiste solo a intermittenza. Una minaccia costante. Se prevedibile, di solito non prevista. Capriccioso, indomabile, maleodorante. È questo che s’intende per primitivo? Nevado del Ruiz, Saint Helens, La Soufrière, La Pelée, Krakatoa, Tambora. Il gigante assopito che si sveglia. Il gigante appesantito che rivolge a te la sua attenzione. King Kong. Che vomita distruzione, e poi risprofonda nella sonnolenza.

A me? Ma io non ho fatto niente. Ero semplicemente là, impantanato nelle mie consuetudini agresti. Dove altro dovrei vivere, sono nato qui, geme il campagnolo dalla pelle scura. Devi pur vivere da qualche parte.

Certo, possiamo considerarlo come un grandioso spettacolo pirotecnico. È tutta questione di mezzi. Una veduta sufficientemente remota. Ci sono incanti fatti apposta per essere ammirati da lontano, dice il dottor Johnson; nessuno spettacolo è piú nobile di una vampata. A sicura distanza, è lo spettacolo supremo, istruttivo quanto elettrizzante. Dopo un rinfresco nella villa di Sir ***, usciamo sulla terrazza, muniti di cannocchiali, per guardare. Il pennacchio di fumo bianco, il brontolio spesso paragonato a un rullo lontano di timpani: ouverture. Poi il colossale spettacolo comincia, il pennacchio si arrossa, si gonfia, s’innalza, un albero di cenere che si inerpica in alto, sempre piú in alto, finché non si appiattisce sotto il peso della stratosfera (se avremo fortuna, vedremo piste da sci di arancio e rosso aprirsi lungo il pendio) – ore, giorni cosí. Poi, in un calando, si placa. Ma da vicino, la paura torce le budella. Questo rumore, questo rumore strozzante, è qualcosa che non avreste mai potuto immaginare, che non potete accettare. Una salda colata di aspro, titanico rombo tuonante che sembra aumentare continuamente di volume eppure non può assolutamente essere piú forte di quanto già sia; riempie il cielo, inonda l’orecchio, un ruggito eruttivo che vi spreme il midollo dalle ossa e vi rovescia l’anima. Perfino coloro che si dichiarano spettatori non possono sfuggire a un’ondata di repulsione e terrore, mai visti prima. In un villaggio ai piedi della montagna – potremmo avventurarci lí – ciò che da lontano appariva come un flusso torrenziale è un campo strisciante di vischiosa melma rossa e nera, pareti in movimento che per un attimo restano immobili, poi con un tonfo risucchiante che dà i brividi ricadono nel fronte palpitante; forzando, aspirando, divorando, slegando gli atomi di case, automobili, carri, alberi, uno a uno. È questo allora l’inesorabile.

Attenti. Copritevi la bocca con un panno. Giú la testa! La scalata notturna di un vulcano moderatamente, puntualmente attivo è una delle grandi escursioni. Dopo la scarpinata lungo il fianco del cono, siamo sul labbro (sí, labbro) del cratere e sbirciamo giú, aspettando che l’incandescente nucleo segreto se la spassi. Come fa, ogni dodici minuti. Non troppo vicini! Inizia. Udiamo un gorgoglio di basso profondo, la crosta di scorie grigie comincia a luccicare. Il gigante sta per espirare. E il soffocante puzzo di zolfo è insopportabile, quasi. La lava ristagna ma non trabocca. Volano, non troppo in alto, lapilli infuocati e ceneri. Il pericolo, se non troppo pericoloso, affascina.

Napoli, 19 marzo 1944, pomeriggio, le quattro. Nella villa le lancette della grande pendola inglese si fermano su un’altra ora fatale. Ancora? Era stato tranquillo cosí a lungo.

Come la passione, di cui è emblema, può morire. Oggi si sa, piú o meno, quando si dovrebbe cominciare a giudicare guarigione la remissione dei sintomi, ma gli esperti esitano a dichiarare morto un vulcano da tempo inattivo. Lo Haleakala, che eruttò per l’ultima volta nel 1790, è ancora ufficialmente classificato quiescente. Tranquillo perché sonnolento? O perché morto? Praticamente morto – a meno che non lo sia. Il fiume di fuoco, dopo aver consumato ogni cosa al suo passaggio, diventerà un fiume di pietra nera. Gli alberi non cresceranno piú qui, mai piú. La montagna diventa il cimitero della propria violenza: la rovina che il vulcano causa include la sua. Ogni volta che il Vesuvio erutta, un pezzo della sommità viene mozzato. Diventa meno armonioso, piú piccolo, piú cupo.

Pompei fu sepolta sotto una pioggia di cenere, Ercolano sotto una frana di fango che precipitò a valle alla velocità di cinquanta chilometri all’ora. La lava invece divora una strada abbastanza lentamente, pochi metri...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.