Sontag | Rinata. Diari e appunti 1947-1963 | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 360 Seiten

Reihe: Ritratti

Sontag Rinata. Diari e appunti 1947-1963


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7452-730-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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Reihe: Ritratti

ISBN: 978-88-7452-730-4
Verlag: Nottetempo
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Rinata, il primo dei tre volumi dei diari e appunti di Susan Sontag di cui nottetempo pubblica l'edizione italiana, coglie e rivela l'autrice - tra i maggiori pensatori e scrittori del XX secolo - mentre è pienamente immersa in una fase di 'autoinvenzione'. Esordendo con la penna di una vorace e prodigiosa quattordicenne, Rinata termina con le annotazioni di una Sontag trentenne, che vive a New York e comincia a essere pubblicata. Il diario di questo periodo è l'affascinante storia di un apprendistato intellettuale, alla ricerca di identità e voce, sorretto da una volontà fortissima e dal profondo, radicato desiderio di essere circondata dalla letteratura e dalla cultura. Com'è stato scritto, il diario può essere considerato come il primo libro di Susan Sontag, 'la storia di una donna che lotta con la propria consapevolezza'.

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Prefazione


Ho sempre pensato che una delle cose piú stupide dette dai vivi a proposito dei morti sia la frase “la tale persona avrebbe voluto cosí…”. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di pure congetture; piú spesso è una forma di hybris, per quanto mossa da buone intenzioni. In realtà, non c’è modo di saperlo. Perciò, al di là di ogni altra cosa che si può dire sulla pubblicazione di Rinata, il primo dei tre volumi che conterranno una selezione dei diari di Susan Sontag, questo non è il libro che avrebbe pubblicato lei – ammesso che avesse deciso di dare alle stampe i propri diari. La decisione di pubblicarli, cosí come la selezione, è, invece, interamente mia. E i pericoli letterari, i rischi morali di questa iniziativa, anche quando non entra in gioco la censura, sono evidenti di per sé. Caveat lector.

È una decisione che non avrei mai voluto prendere. Ma mia madre è morta senza lasciare istruzioni concernenti le sue carte o i suoi scritti non raccolti in volume, o non finiti. Ciò potrebbe apparire sorprendente da parte di qualcuno che aveva molto a cuore il proprio lavoro, che si affannava a controllare le traduzioni anche in lingue conosciute solo approssimativamente, e che aveva opinioni fondate e nette su editori e riviste del mondo intero. Ma, nonostante il carattere letale della sindrome mielodisplasica, il cancro del sangue che la uccise il 28 dicembre 2004, lei continuò a credere, fino a poche settimane prima della sua morte, che sarebbe sopravvissuta. Perciò, anziché parlare del modo in cui avrebbe voluto che gli altri si occupassero della sua opera quando non ci sarebbe stata piú lei a pensarci – come forse avrebbe fatto una persona piú rassegnata alla morte –, parlava con convinzione del proprio ritorno al lavoro e di tutto ciò che avrebbe scritto una volta uscita dall’ospedale.

Ai miei occhi, mia madre aveva l’assoluto diritto di morire come desiderava. Non doveva nulla alla posterità, e tanto meno a me, mentre lottava per la vita. Ma, ovviamente, la sua decisione ha comportato alcune conseguenze involontarie – la piú importante delle quali è che ha delegato a me il compito di decidere come pubblicare gli scritti che si è lasciata alle spalle. Nel caso dei saggi apparsi due anni dopo la sua morte nel volume intitolato Nello stesso tempo, le scelte sono state relativamente semplici. Certo, in vista della ripubblicazione mia madre avrebbe sottoposto i testi a un’ampia revisione, ma i saggi erano stati già pubblicati o letti in forma di conferenza mentre lei era in vita. Le sue intenzioni, dunque, erano chiare.

La questione dei diari è del tutto diversa. Li scrisse esclusivamente per se stessa e con grande regolarità, dalla prima adolescenza fino agli ultimi anni della sua vita, quando il piacere che le procuravano il computer e la posta elettronica parve frenare il suo interesse per la scrittura diaristica. Non una sola frase dei diari fu mai pubblicata e, a differenza di altri diaristi, lei non lesse mai dei passi agli amici, anche se le persone piú vicine sapevano della loro esistenza e della sua abitudine di riporre ogni taccuino, appena completato, accanto ai predecessori nel guardaroba della sua camera da letto, dove custodiva altri oggetti a lei cari ma essenzialmente privati, come le foto di famiglia e i ricordi dell’infanzia.

Quando si ammalò per l’ultima volta, nella primavera del 2004, i taccuini erano quasi un centinaio. E ne spuntarono fuori degli altri l’anno dopo la sua morte, quando, con la sua ultima assistente, Anne Jump, e il suo amico piú intimo, Paolo Dilonardo, misi ordine tra i suoi effetti personali. Avevo un’idea molto vaga del loro contenuto. L’unica conversazione che abbia mai avuto con mia madre a proposito dei diari ebbe luogo quando aveva appena scoperto di essersi ammalata e ancora non si era riaccesa in lei la convinzione che sarebbe sopravvissuta anche a quel cancro del sangue, come agli altri due cancri di cui aveva sofferto in precedenza. La conversazione consistette in una sola frase sussurrata: “Sai dove si trovano i diari”. Non disse nulla in merito a ciò che avrebbe voluto che ne facessi.

Non posso affermarlo con certezza, ma sono portato a credere che, se fosse stato per me, avrei atteso a lungo prima di pubblicarli, o forse non lo avrei mai fatto. Ci sono stati momenti in cui ho pensato persino di bruciarli. Ma era una pura fantasia. La realtà, in ogni caso, è che i diari, in quanto oggetti fisici, non mi appartengono. Quando era ancora in salute, mia madre aveva venduto il proprio archivio alla biblioteca della University of California di Los Angeles, e l’accordo prevedeva che dopo la sua morte anche i diari sarebbero stati custoditi lí, insieme alle sue carte e ai suoi libri, e cosí è stato. E poiché il contratto stipulato da mia madre non prevedeva significative restrizioni di accesso, mi sono reso conto ben presto che la decisione era stata presa per me. Se non mi fossi assunto il compito di organizzare e presentare i diari, lo avrebbe fatto qualcun altro. Mi è sembrato preferibile procedere.

I miei dubbi persistono. Affermare che questi diari sono rivelatori è un drastico eufemismo. Ho incluso nella selezione molti giudizi estremamente severi espressi da mia madre. Lei “giudicava” tantissimo. Ma rendere manifesto questo tratto del suo carattere – e i diari sono pieni di rivelazioni del genere – vuol dire inevitabilmente invitare il lettore a giudicarla. Uno dei principali dilemmi che ho dovuto affrontare nasce dal fatto che, per lo meno durante l’ultima parte della sua vita, mia madre non è stata affatto incline a parlare di sé. In particolare ha evitato, nella misura del possibile, ogni riferimento alla propria omosessualità, senza tuttavia negarla, e ogni confessione delle proprie aspirazioni. La mia decisione, pertanto, viola certamente la sua riservatezza. Non c’è altro modo di dirlo con onestà.

All’opposto, questi diari sono imperniati sulla scoperta adolescenziale della sua natura sessuale, sulle prime esperienze di matricola sedicenne alla University of California di Berkeley, e sulle due relazioni importanti che, ormai maggiorenne, mia madre ebbe – prima con Harriet Sohmers Zwerling [qui identificata come H], che aveva conosciuto durante l’anno trascorso alla Cal e con cui piú tardi, nel 1957, avrebbe vissuto a Parigi; poi con la drammaturga María Irene Fornés, incontrata in quello stesso anno a Parigi (Fornés e H erano state amanti), e con cui avrebbe vissuto a New York dal 1959 al 1963, dopo il ritorno negli Stati Uniti, il divorzio da mio padre e il trasferimento a Manhattan.

Una volta presa la decisione di pubblicare i diari, non avrei piú potuto escludere alcune annotazioni per la particolare luce in cui mettono mia madre, per la loro franchezza sessuale, o per la crudeltà che mostrano nei confronti di alcune delle figure menzionate, anche se ho deciso di omettere il vero nome di certe persone. Al contrario, il mio criterio di selezione è stato in parte guidato dall’idea che l’aspetto piú affascinante dei diari sia proprio la crudezza di queste annotazioni che restituiscono un ritratto non abbellito di una giovane Susan Sontag, impegnata con consapevolezza e determinazione nella creazione dell’identità che desiderava per sé. È per tale ragione che ho scelto di dare a questo volume il titolo Rinata, tratto da una frase che appare sul frontespizio di uno dei primi taccuini; mi sembra che riassuma il progetto a cui mia madre si dedicò sin dall’infanzia.

Nessuno scrittore americano della sua generazione fu legato piú di lei alla sensibilità europea. È impossibile immaginare mia madre che dice di dover raccontare “tutta Tucson” o “tutta Sherman Oaks, California”, al pari di John Updike che, descrivendo il suo apprendistato di scrittore, affermò di essersi dato il compito di raccontare l’intera sua città natale, Shillington in Pennsylvania. Ancora piú impossibile è immaginare mia madre che trova ispirazione in un ritorno all’infanzia e al proprio retroterra sociale ed etnico, come avrebbero fatto molti scrittori ebrei americani della sua generazione. La sua storia – e il titolo Rinata mi appare ancora piú appropriato – è esattamente opposta. Per molti versi assomiglia a quella di Lucien de Rubempré – il giovane provinciale ambizioso che desidera diventare un personaggio importante nella capitale.

Certo, il carattere, il temperamento e i progetti di mia madre non avevano nulla a che fare con quelli di Rubempré. Lei non voleva assicurarsi dei favori. Al contrario, credeva nella propria stella. Sin dalla prima adolescenza, ebbe la convinzione di possedere doni speciali e di avere un contributo da offrire. Il suo intenso e incessante desiderio di approfondire ed espandere sempre piú le proprie conoscenze – un progetto che occupa grande spazio nei diari e che ho cercato di includere nella stessa misura in questa selezione – era in un certo senso una concretizzazione dell’idea che lei aveva di se stessa. Voleva essere degna degli scrittori, dei pittori e dei musicisti che venerava. In questo senso, il mot d’ordre di Isaac Babel, “Devi conoscere tutto”, avrebbe potuto essere anche quello di Susan Sontag.

Oggi la pensiamo in modo diametralmente opposto. La fiducia in se stesso è una costante nella coscienza di chi ha successo nel mondo, ma la forma di questa fiducia è determinata culturalmente e varia considerevolmente da un periodo all’altro. Ritengo che la coscienza di mia madre fosse una coscienza ottocentesca, e la concentrazione su di sé che questi diari testimoniano ha qualcosa del tono dei grandi egoisti di successo – penso a Carlyle. Si tratta di un registro molto diverso da...



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