Starnone | Fare scene | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 184 Seiten

Starnone Fare scene


1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7521-506-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 184 Seiten

ISBN: 978-88-7521-506-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In Fare scene, Starnone racconta una storia individuale che si allarga fino ad abbracciare la parabola dell'Italia negli ultimi sessant'anni. Nella prima parte del libro, un bambino cresciuto nella Napoli proletaria del dopoguerra compie la sua educazione sentimentale circondato dall'atmosfera irripetibile delle sale cinematografiche di allora. Nella seconda parte, quel bambino, diventato un adulto di inizio secolo, non si limita a guardare i film, li fa: è diventato uno sceneggiatore. Ma il cinema di oggi non è più quello di Rossellini, Totò, Fellini, Anna Magnani. E così ? mentre assistiamo alla trasformazione di un ambizioso progetto cinematografico in un prodotto dolciastro e scontato ? ci rendiamo conto che non è solo il protagonista ad aver perso lo sguardo incantato, ma tutto un paese sempre più desolante. Questa edizione contiene un capitolo inedito.

Starnone Fare scene jetzt bestellen!

Autoren/Hrsg.


Weitere Infos & Material


Stamattina sono rimasto a fissare non so per quanto me e mia moglie sullo schermo del computer, abbracciati per strada in una città straniera e intanto contornati da icone di cartelline gialle, dalla e dei collegamenti a internet, dai file zeppi di scrittura, tutte parvenze sospese sopra le nostre facce in uno spazio senza forza di gravità.

Ho pensato al gran numero di foto e filmati che conservo in questa scatola elettronica e mi è venuto in mente di fare un elenco degli oggetti di cui oggi mi servo per documentare a me stesso che sono in vita, qui, ora, e vado verso la morte, e ho un corpo – , che già mentre ne scrivo non è più , non è più , non è più – e ho generato altri corpi, i miei figli, esseri della mia stessa natura, e loro hanno generato altri corpi ancora, i miei nipoti, non diversi per sorte – che dolore, che orrore – dai miei progenitori, da me, dai miei figli, da ogni altro essere vivente-morente il cui presente è ordinato dalla sintassi delle immagini.

Ho scoperto che sono un fruitore assiduo e non schizzinoso di ciò che passa il mio tempo.

Posseggo due macchine fotografiche digitali con una memoria prodigiosa.

Ho una telecamera.

Ho tre televisori, un paio di decoder, un videoregistratore, due lettori di dvd.

Ho quattro computer, tre portatili e uno fisso, zeppi di programmi con cui ridefinisco e ritaglio foto, monto filmati, mi metto in comunicazione con, ricevo parole e immagini da, vedo in diretta i miei familiari quando vado o vanno in giro per il pianeta.

Ho un cellulare che fotografa, filma, invia per case e uffici ciò che elabora.

E tutto si accende, si spegne, si accende, si spegne. Vivo accendendo e spegnendo.

Non è una condizione che riguarda solo me, naturalmente. I miei amici e parenti, senza contare tutti quelli con cui lavoro, hanno strumenti dello stesso tipo, anzi spesso con prestazioni più avanzate di quelle fornite dai miei (in questo momento i nomi magici sono iPhone, smartphone, ma altri e altri li sostituiranno, congegni in continua mutazione, portento che soppianta portento). E ci fotografiamo, ci riprendiamo, registrando nel contempo voci e rumori, nelle stanze, per strada, sul lavoro, in viaggio, a ogni matrimonio, a ogni Natale o Capodanno, a ogni compleanno, e subito riversiamo tutto nei nostri computer – vanno sparendo i neri laboratori di sviluppo, appena stenebrati dalle luci rosse – e ci spediamo immagini e filmati via mail o per cellulare, e ce li guardiamo sullo schermo tv contemplandoci nel corso di allegre riunioni di famiglia.

Senza dubbio – mi dico – non c’è stato nessun altro tempo in cui era possibile avere una tale familiarità col proprio aspetto fisico. Escludo, per esempio, che la moglie del pirandelliano Vitangelo Moscarda potrebbe, ancora oggi, mettere sul serio in crisi il marito dicendogli che il naso gli pende verso destra: lui lo saprebbe già; o avrebbe prove inoppugnabili per dimostrarle che non è vero. Escludo anche che Valéry potrebbe tuttora scrivere a cuor leggero: non c’è un’immagine affidabile di Monsieur Teste, tutti i ritratti differiscono tra loro. E chissà se a Freud accadrebbe, adesso, la stessa cosa che gli accadde ai suoi tempi nello scompartimento di un vagone letto. Mi soffermo su quest’episodio, stamattina, voglio provare a partire da qui per raccontare un fatto che mi è capitato ieri.

Il padre della psicoanalisi era sul punto di mettersi a dormire quando per uno scossone del treno ecco che si apre la porta del bagno, in comune con lo scompartimento attiguo, e appare un anziano signore in veste da camera e berretto da viaggio. Che vuole questo tizio, si chiede Freud, avrà sbagliato direzione e invece di rientrare nel suo scompartimento è finito nel mio. Sono pochi secondi, naturalmente, ma finché non gli ritorna dal fango nero lo sguardo consueto, per il teorico dell’inconscio i secondi sono eterni. Poi finalmente si rende conto che l’intruso è lui stesso, riflesso nello specchio sulla porta del bagno, che si è aperta all’improvviso per gli scossoni del treno.

Non so qual è la spiegazione scientifica, come si dice, di esperienze di questo tipo. Freud ci vede una forma di spaesamento, un residuo di reazione arcaica di fronte all’apparizione di un sosia. E sarà vero, va bene così. Ma stamattina non mi interessa né il doppio, né il sosia, né le credenze animistiche, né il perturbante. Sono colpito invece da quel puro e semplice non riconoscersi. È ancora possibile? In un’epoca in cui gli strumenti sempre più perfezionati che abbiamo a disposizione ci offrono una sorta di specchio permanente di massa dentro cui mirarci senza soluzione di continuità, può capitarci di non riconoscerci, foss’anche solo per una frazione di secondo? Siamo ormai – mi dico fissando me e mia moglie che con le nostre facce facciamo da sfondo al desktop – gli esseri umani col maggior numero di materiali che riproducono non solo il loro volto di prospetto (Freud si vede nello specchio della toletta nel modo più consueto, vale a dire frontalmente), non solo il profilo buono e quello cattivo, ma la loro nuca, la loro schiena, il loro fondoschiena, le loro parti più intime. Prendiamo, per capirci, Giovannin senza paura. In questo nostro tempo il protagonista della famosa favola, cui capitò la brutta avventura di tagliarsi la testa per sperimentare un unguento portentoso attaccatutto, morirebbe ancora, alla lettera, di paura se, incollandosela sul collo tutt’al contrario, gli toccasse di vedere il proprio didietro?

Credo di no. Nessuno di noi rischia più di spaventarsi vedendosi di spalle. Anzi, a forza di essere ripresi e riprenderci in tutti i modi possibili – spesso, in un supermercato, in una banca, in un qualsiasi luogo pubblico, inganno il tempo guardando l’ambiente, e me stesso in quell’ambiente, come appare nelle riprese di una qualche telecamera fissa – ci riconosciamo anche di schiena fin troppo facilmente.

E qui veniamo a ciò che mi è successo. Ieri, sul tram numero 3 (come mai a distanza di cento anni sono i mezzi di trasporto a favorire esperienze inquietanti?), ho visto tra gli altri passeggeri un uomo di schiena, con un instabile mezzo profilo, che m’è sembrato simile a me. Mi sono detto madonna che somiglianza e ho lanciato uno sguardo, poi ne ho lanciato un altro, poi ho attraversato con piccoli movimenti incerti lo spazio che ci separava per capire a quale distanza cedevano i tratti simili e si imponevano le differenze. Ma con stupore crescente più mi avvicinavo, più l’uomo mi assomigliava, e lo scetticismo intanto cedeva, pensavo: che mi sta succedendo? A pochi passi ho avuto un sussulto. Quell’uomo era identico a me, un me a tre dimensioni o forse quattro. Avrei potuto dire questo sono io e indicare con la mano destra non il mio corpo, come si fa di solito, ma il suo. Avrei potuto usare il pronome di prima persona dentro una voce che era la mia, che usciva dalla mia gola, e tuttavia intendere che era quel tale di spalle, col profilo appena accennato, un corpo in quel momento muto che non enunciava alcunché

Come ho reagito? Forse, allo stesso modo di Freud, mi sono un po’ spaesato. Spaventato no, è troppo. Ho continuato ad avanzare verso l’uomo di spalle tra incredulità e un po’ d’ansia. Poi però l’uomo si è girato, forse perché ha sentito che stavo per afferrarlo per un braccio, e ho scoperto – questo sì che mi ha spaventato, dandomi una lieve nausea – che visto frontalmente non aveva niente in comune con me, era soltanto un altro. Ma di schiena, di mezzo profilo – in quella composizione d’insieme che combaciava nei dettagli: l’attaccatura dei capelli, il colore brizzolato, il collo, la forma delle orecchie viste da dietro, uno scorcio di zigomo, di guancia, la punta del naso, le spalle un po’ curve – chi era? Mi assomigliava veramente così tanto come avevo creduto?

Ho guardato l’uomo con insistenza, direi che me lo sono studiato, e ho scoperto che mi faceva venire vagamente in mente Jimmy Stewart come appariva al cinema intorno ai sessant’anni.

Ecco, mi è sembrato di capire, si tratta di un amalgama: nello sguardo che ho posato su questo signore ho messo sia il mio modo di immaginarmi da bambino, nei giochi con cui rifacevo i film d’avventura con James Stewart, sia il modo di immaginarmi da adolescente, dopo aver visto in tv; nello sguardo che ho posato su questo signore ho messo anche il mio sguardo infantile su mio nonno, che secondo mio padre assomigliava all’attore americano, e persino un po’ dello sguardo del mio genitore quando mi induceva a guardare tutta la nostra stirpe di maschi alti, un po’ curvi, con la testa oblunga, come discendenti di popolazioni nordiche, caso mai anglosassoni, di certo – diceva – «non saracene come gli antenati di tua madre»; nello sguardo che ho posato su questo signore ho messo infine tutte le mie foto e i filmati in cui la mia immagine di schiena mi piace, foto e filmati che guarda caso sono proprio le foto e i filmati che non ho distrutto perché mi pareva che lì, di prospetto, di nuca, io fossi venuto bene, assomigliassi un pochino a Jimmy Stewart. Insomma ho visto in quel tale una cosa che in natura non esiste, un vortice di fantasticherie intorno al mio stesso corpo, così come si sono mescolate in fasi diverse della vita.

Sono passato oltre, sono sceso dal tram. Ma la cosa non è finita lì. Anche l’uomo è sceso precipitosamente alla mia fermata e me ne sono accorto e sono stato risucchiato dentro una sorta di gorgo immaginativo. Questa persona, ho pensato, adesso mi...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.