Steinmüller | Andymon | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, Band 81, 396 Seiten

Reihe: formelunghe

Steinmüller Andymon

Un'utopia dello spazio
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6110-273-6
Verlag: Del Vecchio Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Un'utopia dello spazio

E-Book, Italienisch, Band 81, 396 Seiten

Reihe: formelunghe

ISBN: 978-88-6110-273-6
Verlag: Del Vecchio Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In un tempo futuro la civiltà terrestre invia una nave stellare nello spazio. I sistemi della nave sono strutturati per permettere lo sviluppo di embrioni e a coloro che nasceranno è affidato il compito di fondare una nuova società sul pianeta Andymon. Una generazione segnata da una distanza essenziale con il resto dell'umanità: saranno le macchine, infatti, ad occuparsi di gestazione e nascite e saranno i robot a sostenere necessità materiali e a curare l'educazione. I princìpi appresi e il senso di comunità sviluppatosi in viaggio vengono messi alla prova dalle difficoltà che il nuovo pianeta presenta e dai condizionamenti ereditati da una civiltà ormai lontana. La strada verso l'utopia non è percorribile senza fatica e anche solo pensare di intraprendere questo percorso vuol dire essere disposti a lasciarsene modellare. In questo caposaldo della fantascienza europea degli anni Ottanta (Andymon nel 1989 viene votato come il più rappresentativo romanzo di fantascienza della Germania Est) troviamo la forza immaginativa di una società che necessariamente è diversa da quelle di cui si hanno memorie. Rapporti di potere ed equità sociale, progresso tecnologico e armonia con la natura, mettono in scena i conflitti, dialoghi e gli sviluppi per un futuro possibile.

Tra i più importanti autori di fantascienza della Germania. Angela è una matematica, Karlheinz un fisico e dottore in filosofia, ed è anche uno dei futurologi tedeschi più rinomati dagli anni Novanta. Il primo volume di racconti di fantascienza di Karlheinz, L'ultimo giorno su Venere (1979), è stato seguito da numerose opere scritte insieme ad Angela, incluso il romanzo Andymon del 1982, che è stato votato come il libro di fantascienza più popolare nella DDR. Gli Steinmüller hanno ricevuto il famoso Kurd Laßwitz Preis per la fantascienza ben cinque volte: una volta per il romanzo Der Traummeister e quatto volte per il miglior racconto o novella.
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LABIRINTO DELLA NAVE

Quando oggi ripenso alla nave, mi rivedo davanti agli occhi l’ordine logico delle sue sezioni, disegnate sui progetti di costruzione. Le sue parti si aggregano in un unico, gigantesco, sensato insieme di meraviglia matematica, con linee chiare e una precisa funzionalità.

Al tempo però, appena lasciato per la prima volta insieme a Guro il fidato parco naturale, la nave era per me un caos estraneo, incomprensibile ma travolgente, tra strani apparecchi, porte che nascondevano segreti, simboli che avevo imparato a leggere, ma non mi dicevano niente. Come potevo resistere?

Alla prima occasione gettai in uno zainetto qualche frutto e un po’ di focaccia. Non pensai ai vestiti. Tentennai solo per un attimo. Dovevo portare uno dei fratelli? Non Delth. Ad Alfa non sarebbe interessato. Forse Gamma? No, volevo essere io da solo! Almeno una volta, scoprire per conto mio qualcosa di nuovo, avere il vantaggio di un’esperienza in più rispetto agli altri. Mi assicurai che nessuno mi seguisse e sgattaiolai verso la porta tra le rocce. Si aprì. Feci un bel respiro ed entrai nel corridoio che già conoscevo.

La voce di Guro, di cui si serviva il computer della nave, chiese: – Beth, dove vuoi andare? Dove posso portarti?

Guardai a destra e a sinistra: in entrambe le direzioni, il corridoio procedeva con una leggera salita. – Non importa, – risposi, – non mi serve il tuo aiuto.

Scelsi la destra e mi incamminai veloce. Girai nel primo corridoio trasversale: non era inclinato, quindi avrei potuto vedere molto lontano; ma nel segmento di corridoio in cui mi trovavo, le lunghe superfici luminose rimandavano una tenue luce giallastra. Corsi verso l’oscurità di fronte a me, senza raggiungerla: la luce mi precedeva.

A intervalli regolari, sul percorso comparivano dei corridoi, file di porte dai colori opachi interrompevano la monotonia delle pareti giallo pastello: erano oliva e carminio, cobalto e terra di Siena. Lettere bianche e brillanti indicavano: 4384 tratto rb 6, 4382 tratto rb 6. Ogni cento passi attraversavo una banda nera di dieci centimetri, che percorreva il corridoio trasversalmente dall’alto in basso; in quei punti, avrei scoperto poi, potevano scorrere delle paratie per sbarrare il passaggio. Interfoni color acciaio erano attaccati alle pareti da entrambi i lati della banda. Sapevo già usarli: il piccolo schermo poteva farmi vedere i fratelli, o anche i progetti architettonici della nave. Ma volevo cavarmela da solo.

Dopo circa tre chilometri, cominciai ad annoiarmi. Là c’era una porta di vetro! E una scritta: scala. Non appena mi avvicinai, la porta scivolò senza un suono verso l’alto. Divampò un fascio di luce dai riflessi opachi. Mi trovavo sul bordo di un enorme tubo, che conduceva sia in alto che in basso. Avrebbe potuto ospitare agevolmente uno degli alberi più grossi del parco naturale. Dalla parete sporgevano gradini di vetro dall’aspetto fragile, larghi circa un metro e mezzo, che andavano a formare tre scalinate, ognuna spostata di circa un terzo del tubo rispetto alla precedente. Il tubo proseguiva verso l’alto solo per tre giri, ma verso il basso…! Mi tenni stretto alla ringhiera bluastra e morbidissima, elastica, e guardai giù. Contai una dozzina di giri fino al fondo. La scala cedeva lievemente sotto i miei passi, tornando in posizione con un piccolo rimbalzo. Affascinato, iniziai la discesa. Il primo giro lo percorsi con cautela, poi proseguii più veloce, sempre più veloce, finché non mi sentii girare tutto attorno. Rischiai quasi di cadere: la scala finiva con una leggera curva, sfociando in un pianerottolo orizzontale.

Ero arrivato alla fine del tubo? Affannato, mi appoggiai alla balaustra. Sì e no. Le scale si interrompevano, ma il tubo proseguiva ancora per un pezzo e risaliva poi in un tubo della stessa grandezza, orizzontale, dall’aspetto di un grande tunnel buio. Riuscivo a vederne un po’ l’interno e mi meravigliai: anche questo tubo era circondato da scale. Che cosa insensata… nessuno sarebbe riuscito a percorrerle.

Tirai fuori una focaccia e la masticai guardando le strane scale. Mi sembrava una cosa tanto folle che non mi sarei aspettato una spiegazione neanche da Guro. Solo dopo anni avrei scoperto che, durante la costruzione della nave, questi tubi erano stati usati per manovrare enormi macchinari in assenza di gravità.

Rabbrividii. Il mio corpo nudo era coperto di pelle d’oca. Attraversai una doppia porta e mi ritrovai in una stanza minuscola. La parete di fronte a me aveva una rientranza, che si aprì per rivelare otto sedili sormontati da una cupola. Mi ero appena seduto su uno dei due sedili anteriori quando la parete mi si richiuse dietro.

Si accesero degli schermi, mostrando diagrammi intricati, simboli, lunghi testi che non capii. E allo stesso tempo, Guro chiese: – Dove vuoi andare, Beth?

La sua voce mi spaventò, balbettai: – Non lo so.

Allora una forza invisibile mi spinse forte contro il sedile per alcuni secondi. Volevo urlare “basta!”, ma non riuscii a tirar fuori una parola. Sullo schermo, un puntino rosso luminoso percorreva lentamente il diagramma.

Quando la pressione si affievolì, mi alzai e mi diressi al punto da cui ero entrato. Non si aprì nulla. Bussai, all’inizio con timidezza, poi tempestando di pugni la plastica liscia e morbida. Ero in trappola. Catturato da Guro.

– E quindi? – esclamai.

Una leggera scossa mi fece vacillare prima verso destra, poi verso sinistra.

– È meglio che tu ti sieda, – disse la voce di Guro.

Io rimasi in piedi. All’improvviso, la forza invisibile mi gettò a terra. Rimasi disteso lì, irrigidito dalla paura. Dopo pochi secondi, la pressione scomparve e la parete si aprì, come beffandosi di me. Mi massaggiai le natiche, mi lanciai lo zaino sulle spalle e lasciai la stanza insidiosa – ritrovandomi in un ascensore.

Pareti scorrevoli, porte di vetro, grandi portali, la luce mi accompagnava. Cartelli, scritte sulle porte: fis. - lab. 11, tratto di rigenerazione, trasformatore…

Il mio passo si fece sempre più pesante. Mi trovavo in una sala enorme, riuscivo a vederne solo una piccolissima parte. C’erano dei container impilati come mattoncini giocattolo fuori misura. Grandi reti fatte di spesse funi rosse li circondavano e suddividevano la sala. Avrei voluto aprire un container, ma grattai invano contro la sua superficie opaca. Deluso, mi sedetti per mangiare. Tutto era freddo al tatto: il pavimento, il container contro il quale mi appoggiai.

C’era un silenzio innaturale. Ed ero solo, un minuscolo insetto nella nave gigante. Deglutii, poi dissi con circospezione: – Ciao.

Neanche l’eco rispose. Ripetei il richiamo, solo un po’ più forte. Silenzio. Mi alzai e urlai con tutte le mie forze: – Ciaaaooo!

Il grido si perse nel vuoto. Ma subito dopo, accanto alla porta dalla quale ero entrato, un piccolo schermo si accese di rosso, e da quella breve distanza sentii la voce di Guro: – Cerchi qualcuno, Beth? Hai bisogno di qualcosa, Beth?

– No, grazie! – la mia voce suonò stridula.

Il rosso si spense, e io abbandonai quella sala inospitale.

Porte, gallerie, corridoi, ascensori, viottoli, scale, portali, sale. Corridoi dritti e ricurvi. Un vicolo cieco. Sui suoi lati si ergevano strane figure flosce dall’aspetto umano, ma argentee. Afferrai le loro braccia, guardai negli elmi vuoti aspettandomi un movimento, ma non successe niente. Ne liberai una dal suo sostegno, trovando subito le apposite maniglie. Mi cadde addosso, con braccia e gambe scomposte. Atterrito, me ne liberai. Rimase lì distesa, un mucchietto senza vita, i cui arti distorti in modo inumano sembravano minacciarmi. Indietreggiai con cautela.

Là! Un leggero ronzio. Dall’oscurità spuntò un veicolo dall’aria bizzarra e minacciosa. Un robot di servizio che teneva alzate delle tenaglie. Immobilizzato dallo spavento, mi attaccai alla parete; quando si fu allontanato, tirai un sospiro.

Esausto come dopo una lunghissima esplorazione del parco naturale, cercai un posto dove stendermi, aprendo porte a caso e guardando nelle stanze che nascondevano: alcune erano piene fino all’orlo di enormi macchinari, intricati apparecchi di vetro, strumenti avvolti in imballaggi spiegazzati.

Infine, trovai un sedile; ormai volevo solo una cosa: mi sedetti, sollevai i piedi, mi girai su un fianco, mi rannicchiai, aggrappandomi al legaccio del mio zaino. Mi addormentai battendo i denti.

Quando mi svegliai, una coperta mi teneva al caldo. La spostai controvoglia, mi alzai, il corpo ancora irrigidito; avevo una gran voglia di farmi un bagno veloce. Mangiai una focaccia e due mele.

Sulla pulsantiera di fronte al sedile accanto al mio, un piccolo tasto lampeggiava di verde: navicelle pronte all’uso. La pulsantiera era all’altezza del mio petto. Premetti a caso i pulsanti, si sentì un ronzio, delle luci si accesero, su un apparecchio alla mia sinistra iniziarono a scorrere lunghe file di simboli colorati. All’improvviso la parete di fronte a me scomparve nel nulla, mostrandomi una sala ancora più grande di quella che avevo scoperto il giorno prima. C’erano dei giganteschi insetti di metallo disposti in lunghe file. Ma per quanti bottoni premessi, laggiù non successe nulla. Avevo l’impressione di non conoscere la formula necessaria, che mi fosse sfuggito il pulsante giusto.

– Sei ancora troppo piccolo, Beth, – disse la voce familiare di Guro. – Tra dieci anni saprai – e potrai – guidare le navicelle.

– Sono già grande, – protestai, – ho attraversato tutta la nave da solo. Ce la posso...



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