E-Book, Italienisch, 452 Seiten
Wallace Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-415-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 452 Seiten
ISBN: 978-88-7521-415-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Da anni impegnata nella ricerca della letteratura angloamericana di qualità, minimum fax celebra una delle sue più grandi scoperte, David Foster Wallace, con la riedizione dei titoli che hanno fatto conoscere e amare lo scrittore statunitense anche in Italia. Cinque pubblicazioni, in una nuova veste grafica, che raccolgono le diverse forme letterarie in cui Wallace si è cimentato: la narrativa (La ragazza dai capelli strani, Verso Occidente l'Impero dirige il suo corso), il reportage narrativo e la saggistica (Una cosa divertente che non farò mai più, Tennis, tv, trigonometria, tornado e Il rap spiegato ai bianchi), ottenendo sensazionali risultati di critica e di pubblico. A tre anni dalla sua morte, minimum fax rilancia un autore di culto la cui opera - diventata rappresentativa di un'intera generazione di scrittori - è destinata a conquistare il cuore e la memoria dei giovani lettori per sempre. Pubblicata dopo il successo mondiale di Infinite Jest, che consacrò Wallace come uno dei migliori narratori americani contemporanei, questa raccolta ne rivelò anche il talento di saggista e osservatore del proprio tempo. Esilaranti reportage «dietro le quinte» da un'edizione degli Open Canadesi di tennis e dal set di Strade Perdute di Lynch; fotografie inedite della vita di provincia americana in un Midwest animato da bizzarie metereologiche e chiassose fiere campionarie; geniali riflessioni sul rapporto di odio/amore fra la televisione e la narrativa contemporanea. In sei saggi sui generis, Wallace ci offre un'analisi caleidoscopica della società e della cultura postmoderna condotta al tempo stesso con lo sguardo acuto e distaccato del critico e quello entusiasta del fan, e percorsa da una vena inesauribile di ironia.
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Tennis, trigonometria e tornado
Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per andare a frequentare l’università dove si era laureato mio padre fra i vivaci rilievi delle Berkshires nel Massachusetts occidentale, sviluppai un’improvvisa fissazione per la matematica. Comincio adesso a capirne il motivo. Per uno del Midwest, la matematica del college produce un’evocazione catartica della nostalgia di casa. Io ero cresciuto in mezzo a vettori, rette, rette che intersecano rette, griglie – e, all’altezza dell’orizzonte, le ampie linee curve delle forze della natura, il bizzarro assetto topografico a spirale di un immenso lotto di terra stirata dalle glaciazioni, che si poggia e ruota su placche geologiche. L’area dietro e sotto queste grandi curve alla giunzione di terra e cielo ero in grado di disegnarla a occhio molto prima di sapermi servire degli infinitesimali come aiuto e degli integrali come schema. La matematica in una scuola dell’Est collinoso era facile come svegliarsi la mattina: scomponeva i ricordi e li riportava alla luce. L’analisi matematica era, abbastanza alla lettera, un gioco da ragazzi.
Verso la fine della mia infanzia imparai a giocare a tennis sui campi di cemento di un piccolo parco pubblico ricavato da un pezzo di campagna che era stato azotato troppe volte per poter essere ancora coltivato. Si trovava nel mio paese, a Philo, nell’Illinois, una minuscola collezione di silos di granturco e case stile Levittown dell’epoca della guerra, in cui la gente del posto aveva poco altro da fare a parte vendere assicurazioni sul raccolto, fertilizzanti azotati ed erbicidi, e riscuotere le imposte di soggiorno dai giovani professori della vicina università di Champaign-Urbana, le cui schiere nel boom degli anni Sessanta si gonfiarono abbastanza da rendere ben chiaro il senso di tipo «città dormitorio di campagna».
Fra i dodici e i quindici anni, io ero un quasi-campione di tennis nella categoria juniores. Mi feci le ossa sul campo lavorandomi i figli di avvocati e di dentisti ai piccoli tornei del Country Club di Champaign e Urbana e di lì a poco ammazzavo intere estati scarrozzato in macchina all’alba alla volta di vari tornei per tutto l’Illinois, l’Indiana, e l’Iowa. A quattordici anni arrivai al diciassettesimo posto nella classifica della Sezione Occidentale della United States Tennis Association (dove «occidentale» è l’antico e decrepito termine con cui l’USTA indica il Midwest; ancora più a ovest c’erano la Sezione del Sudovest, del Nordovest e del Nordovest Pacifico). Il mio flirt con l’eccellenza tennistica ebbe molto più a che fare con la zona dove prendevo lezioni e mi allenavo e con una strana propensione per la matematica intuitiva che con il talento atletico. Ero, anche per gli standard dell’agonismo juniores, quando ognuno non è che un bocciolo di potenziale puro, un giocatore di tennis piuttosto privo di talento. La mia visione di gioco andava bene, ma non ero né robusto né veloce, avevo un torace quasi concavo e dei polsi così sottili che li potevo stringere tra pollice e mignolo, e riuscivo a colpire una palla da tennis con una potenza o precisione non maggiore di quella di quasi tutte le ragazze della mia fascia d’età. Quello che sapevo fare, però, era «Giocare a Tutto Campo». Questo era un tipico truismo tennistico che poteva voler dire ogni genere di cose. Nel mio caso, significava che conoscevo i miei limiti e i limiti del posto in cui mi trovavo, e mi adattavo di conseguenza. Nelle condizioni esterne peggiori, io esprimevo il mio meglio.
Ora, le condizioni esterne nell’Illinois centrale sono da un punto di vista matematico interessanti, e da un punto di vista tennistico terribili. La calura estiva e l’umidità da far sudare le pareti, la grottesca fertilità del suolo che fa crescere a viva forza erbe varie ed erbacce a foglia larga attraverso la superficie del campo da tennis, i moscerini che si nutrono di sudore e le zanzare che proliferano tra le zolle o nei canali ostruiti dalle alghe che in genere delimitano i campi, le partite notturne quasi impossibili perché falene e moscerini del letame attirati dalle luci al sodio formano una piccola galassia intorno a ogni fanale e tutta la superficie del campo illuminata è una vibrazione di piccole ombre spastiche.
Ma più di tutto il vento. La variabile che più influisce sulle caratteristiche della vita all’aperto nell’Illinois centrale è il vento. Ci sono molte più barzellette locali di quante potrei mai ricordarmi sulle banderuole per il vento ammosciate e sui silos inclinati, più soprannomi locali per i vari tipi di vento di quanti ce ne siano in Lapponia per la neve. Il vento possiede una personalità, un (brutto) carattere e, indiscutibilmente, programmi ben precisi. Il vento soffia le foglie d’autunno in linee sinusoidali e archi di forza così regolari che potresti fotografarli per un libro di testo sulla regola di Cramer e i prodotti vettoriali delle curve tridimensionali. D’inverno modellava la neve in listelle abbaglianti che seppellivano le macchine bloccate e costringevano gli abitanti a spalare non solo i vialetti d’accesso, ma anche i lati delle case; la «tormenta» dell’Illinois centrale comincia soltanto quando la neve smette di cadere e inizia a soffiare il vento. La maggior parte della gente a Philo non si pettinava i capelli perché era fatica sprecata. Sopra le loro acconciature fresche di parrucchiere le signore portavano certi fazzolettoni di plastica legati sotto il mento ed era una cosa così usuale che io pensavo fossero indispensabili per una coiffure veramente di classe; sull’East Coast le ragazze che uscivano coi capelli sciolti e fluenti sulle spalle mi sembravano nude e indecenti. Vento, vento e poi ancora vento...
La gente che conosco che viene da fuori sintetizza l’essenza del Midwest in vuota piattezza, landa sterile, campi di felci verdi o di stoppie corte e dure come la barba del pomeriggio, lievi gibbosità e declivi che rendono la topologia del posto un esercizio sadico di rilevamento di quadriche, un panorama dall’autostrada talmente monotono e arido da far uscire pazzi gli automobilisti. Quelli che vengono dall’Indiana/Wisconsin/Nord Illinois hanno un’idea del loro Midwest come agronomia, futures delle derrate agricole, spannocchiatura del granturco, ragazzini che strappano le erbacce dai campi di soia, berretti delle ditte di sementi, tipologie nordiche con i pomi sulle guance, sidro e macellazione e tornei di football con banchi di foschia formati dal fiato che esce dai caschi. Ma nella strana sacca centrale composta da Champaign-Urbana, Rantoul, Philo, Mahomet-Seymour, Mattoon, Farmer City e Tolono, il vento forma e deforma la vita del Midwest. Climaticamente, il nostro distretto si trova sulla parte orientale di una corrente ascendente di quella che una volta ho sentito chiamare da un meteorologo in tweed marrone una «anomalia termica». Qualcosa che aveva a che fare con le rotazioni verso sud di una sorta di matrimonio misto tra l’aria frizzante proveniente dai Grandi Laghi e l’umida robaccia del sud che viene dal Kentucky e dall’Arkansas, più una strana dose di assurdi zefiri dalla valle del Mississippi situata tre ore a ovest. Chicago chiama se stessa la Città del vento, ma Chicago, un unico grande frangivento, non è assolutamente a conoscenza di un autentico vento di tipo religioso. E i meteorologi non avevano niente da dire alle persone di Philo, che sapevano perfettamente che la cruda verità è che verso ovest, fra noi e le Montagne Rocciose, fondamentalmente non c’è altro che pianura, e che strani zefiri e aliti di vento si mescolano a brezze, raffiche, correnti d’aria calda e fredda, e qualunque altra cosa ci sia sopra il Nebraska e il Kansas, e si spostano verso est come torrenti che finiscono in un fiume, o come jet e schiere militari che si ammassano come valanghe e rombano in retromarcia sui tratturi dei pionieri, diretti verso i nostri personalissimi culi indifesi. Il peggio era in primavera, la stagione del tennis per i ragazzi delle superiori, quando le reti restavano tese come bandiere orgogliose e una palla vagante poteva volare direttamente fino alla recinzione più a est e interrompere il gioco su molti campi vicini. Durante una brutta raffica capitava che alcuni di noi tirassero fuori della corda e dicessero a Rob Lord, il nostro quinto uomo nei singolari, che era di una magrezza spettrale, che avremmo dovuto legarlo da qualche parte per evitare che diventasse un proiettile. L’autunno, che in genere era di gran lunga migliore della primavera, era un cupo muggito perenne e un pesante sbattere di continenti di foglie secche che venivano disposte lungo linee di forza – non avevo mai sentito un suono che somigliasse anche lontanamente a questo megaschiocco finché a diciannove anni, alla baia di Fundy nel New Brunswick, sentii per la prima volta un’onda di alta marea infrangersi e poi venire risucchiata su una spiaggia di ciottoli levigati. Le estati erano folli e piene di raffiche, ma poi, spesso verso agosto, di una calma mortale. Certi giorni d’agosto il vento semplicemente moriva, ma non era per niente un sollievo: il fatto che smettesse ci faceva impazzire. Ogni anno, ad agosto, ci accorgevamo di nuovo di quanto il rumore del vento fosse diventato parte integrante della colonna sonora della vita di Philo. Il rumore del vento era diventato, per me, silenzio. Quando smetteva, rimanevo con il ronzio del sangue nella testa, e nelle orecchie la vibrazione di tutti quei peluzzi del timpano che tremavano come un ubriaco in astinenza. Ci vollero dei mesi, quando mi trasferii nel Massachusetts occidentale, prima che riuscissi a farmi una vera...