Welty | Come sono diventata scrittrice | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 167 Seiten

Welty Come sono diventata scrittrice


1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-7521-421-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 167 Seiten

ISBN: 978-88-7521-421-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Quali sono i dettagli nella vita di uno scrittore che formano la materia prima delle sue narrazioni? Quali suoni, colori, volti sono destinati a fissarsi sulla pagina scritta per trovare lì il loro significato più vero? Qual è, in altre parole, il rapporto che lega il vissuto, l'esperienza, la memoria con l'arte del raccontare? Eudora Welty fatto amare i suoi romanzi, prova a rispondere a questi interrogativi in un libro a metà strada fra l'autobiografia letteraria e il manuale di scrittura creativa. Ripercorrendo le tappe più luminose dell'infanzia e della giovinezza - la vita familiare e la scuola, i libri e la scoperta del mondo, fino ai primi tentativi di scrivere racconti - la Welty ricostruisce la propria formazione intellettuale e ci offre una riflessione inedita su come anche eventi apparentemente marginali possano imprimersi nella coscienza di uno scrittore, contribuendo a plasmare il suo stile e il suo immaginario; perché, come scrive l'autrice, 'il nostro tempo soggettivo è spesso la cronologia propria dei racconti e dei romanzi: è il filo continuo della rivelazione'.

Welty Come sono diventata scrittrice jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


Quando a bordo della nostra spaziosa Oakland a cinque posti partimmo per il viaggio estivo verso l’Ohio e il West Virginia, in visita ai nonni paterni e materni, mia madre fungeva da navigatore. Per tutto il percorso, spesso con il piccolo di famiglia in braccio, sedeva in stato di allerta vicino a mio padre che guidava, correlando la guida dell’Associazione Automobilisti con il tachimetro e dicendo cose tipo: «Bene, papà: “86 e 2, incrocio. Leggera svolta a destra, dopo chiesa bianca. Termine ghiaia”... Ed ecco la chiesa!», esultava, come se avessimo segnato un punto; il nostro tragitto diventava sempre il suo avversario. «La cosa non mi sorprende affatto», commentava mentre papà si faceva un chilometro e mezzo in retromarcia, nel polverone che avevamo appena sollevato, lungo una strada che era finita nel nulla. «L’avevo capito subito che una strada così non aveva proprio intenzione di andare da nessuna parte».

«Ma in tutto il giorno era la prima che vedevamo puntare nella direzione giusta», rispondeva lui. Che aveva un senso dell’orientamento infallibile, e conosceva ogni palmo della versione ferroviaria di quello stesso tragitto. Ma noi ci mettevamo in viaggio, come si diceva allora, «per la campagna».

Il cappello della mamma viaggiava dietro insieme a noi bambini, dentro una federa sospesa sulle nostre teste: andava su e giù con noi a ogni cunetta, e con fare autoritario ci assestava botte in testa e schiaffi sulle orecchie quando ci capitava di sobbalzare fino al tettuccio dell’abitacolo. Stiamo parlando del 1917 o 1918: una signora non poteva certo pensare di spostarsi senza cappello.

Io e Edward viaggiavamo con le gambe distese in avanti sopra alcune valigie, mentre il resto dei bagagli si trovava fuori delle portiere, ben assicurato ai predellini; le macchine di allora non erano dotate di baule. Gli attrezzi si tenevano sotto il sedile posteriore, e se ne aveva sincopata notizia a ogni buca; se papà doveva prendere il cric per sollevare l’auto e riparare una gomma forata, oppure tirare fuori la fune da rimorchio o le catene da neve, noi saltavamo giù. Se al contrario pioveva così forte da non vedere più la strada, aspettavamo dentro che passasse, giocando a «Venti domande» dietro le tende incerate.

Di suo la mamma non era una grande osservatrice, ma era brava a scrutare attorno; se dedicava la propria attenzione all’ambiente circostante era sempre per verificare qualcosa – la verità o l’errore, suo o altrui. Papà invece guardava la strada, lanciando talvolta occhiate all’orizzonte o al cielo. Mio fratello Edward montava in piedi sul sedile posteriore a intervalli regolari e con le palpebre tremolanti suonava con l’armonica «Nella vecchia fattoria» oppure «Abdul the Bulbul Amir», mentre il piccolo dormiva in grembo a mia madre e si svegliava solo quando passavamo su qualche vecchio ponte sferragliante. «C’è un fiume!», gorgogliava rivolto a tutti quanti; «Ma certo che c’è», lo rassicurava la mamma, carezzandolo per farlo riaddormentare. Io me ne stavo là come ipnotizzata, lo sguardo fisso sul paesaggio che mi vibrava accanto a quaranta all’ora; il lungo percorso avvolgeva ciascuno di noi in un bozzolo tutto suo.

Il viaggio durò una settimana all’andata e una al ritorno, ed entrambi i miei genitori furono in balia di ogni singola giornata. Stando dietro mio padre vedevo bene che la strada lo teneva stretto per le spalle, per i capelli sotto il berretto da pilota; solo mia madre riusciva a farlo smettere di guidare. E io ho ereditato la medesima energia nervosa, per come non riesco a smettere di scrivere. Capisco però quanto l’Ohio stesse nel cuore di papà, come il West Virginia stava in quello della mamma; conoscere la propria destinazione incanta allo stesso modo scrittori e viaggiatori.

E per tutto il percorso, pur pensando che la stiamo raggiungendo molto in fretta, siamo invece lentissimi. Durante il nostro primo viaggio in auto la mamma annotò fiera sul diario di bordo: «Chilometraggio di oggi: 259!», proprio col punto esclamativo.

«Ieri ci ha superato un’auto con la targa di Detroit». Teneva sempre questi registri dell’avanzata giornaliera, nei quali sommava tempi, distanze, itinerari e spese.

Viaggiare in quel modo ti rendeva consapevole delle frontiere; si avanzava già pronti a incontrarle. Nell’attraversare un fiume, un confine di contea, un confine di stato – e specialmente attraversando quel confine che non riuscivi a vedere ma sapevi che c’era, fra il Sud e il Nord – era possibile prendere fiato e sentire la differenza.

La guida dava consigli sugli orari dei traghetti; talvolta bisognava aspettare un’ora fra uno e l’altro. E certi fiumi, non meno tortuosi delle strade, bisognava passarli tre volte prima di levarseli di torno. Poggiato sull’acqua ai piedi di un argine si scopriva un traghetto non più grande di una verandina; ma una volta che la nostra macchina era stata condotta a bordo – spesso giù per l’argine privo di strada, sui sassi sdrucciolevoli e il ghiaietto che schizzava ovunque, con papà che si limitava a mirare alla passerella fatta di due assi – padre e figli più grandi scendevano per godersi la traversata. Io e mio fratello ci mettevamo a piedi nudi su tavole umide e calde di sole che, schiacciate dal peso della macchina, parevano scendere al livello dell’acqua; era proprio come se avessimo i piedi immersi nel fiume. Alcuni di questi traghetti erano governati da un uomo soltanto, una mano dietro l’altra a tirare una fune tanto lacera e sbiancata che pareva fatta di foglie di granturco.

Guardavo la fune sbrindellata che correva tra quelle due mani e pensavo che si sarebbe spezzata prima che riuscissimo a raggiungere l’altra sponda.

«Ma no che non si rompe», diceva mio padre. «Non si è mai rotta prima d’ora, no?», chiedeva poi al traghettatore.

«Nossignore».

«Sentito? Se non si è mai spezzata finora, non si spezza neanche stavolta».

La sua complessiva fiducia nel bene della vita funzionava in entrambi i sensi. Se avevi un dolorino da qualche parte lui chiedeva: «L’hai già avuto? Ah, sì? Allora non ti ucciderà. Se lo hai già sentito prima, vedrai che domani è tutto a posto».

Mia madre dissentiva invece con tutte le sue forze.

«Sei sempre troppo ottimista, caro», sospirava sovente, come ora sul traghetto.

«Tu però sei parecchio pessimista, tesoro».

«Puoi dirlo forte».

E tuttavia, ferma là tra loro con l’acqua che mi scorreva sulle dita dei piedi, sapevo benissimo che lui, l’ottimista, era sempre preparato al peggio mentre lei, la pessimista, era la vera intrepida: era lui che durante il viaggio si portava tutte le sere l’ascia, le catene e una fune arrotolata su nella nostra camera d’albergo, casomai scoppiasse un incendio, e lei che – prima che io nascessi – durante un vero incendio si era divincolata da quanti la trattenevano ed era tornata – con le stampelle, per giunta – nella casa in fiamme per salvare i ventiquattro volumi di Dickens, che aveva buttato uno per uno dalla finestra perché papà li prendesse, per poi gettarsi giù dietro di loro.

«Non è certo un segreto che abbia sempre avuto paura dell’acqua», diceva la mamma, che sul traghetto rimaneva in macchina stringendo a sé il piccolo – mio fratello Walter, destinato a vagare per le acque del Pacifico a bordo di un dragamine.

Non appena il sole cominciava a calare, anche noi rallentavamo; mio padre proseguiva passando in rassegna i centri abitati, in ciascuno ispezionava l’albergo e decideva dove avremmo passato la notte. Ogni cittadina, piccola o grande, aveva un inizio e una fine, raggiungeva un margine e terminava, quasi non fosse mai esistita, là dove ricominciava la campagna. Ciascuna era integra e chiusa in sé, e ciascuna si vedeva di lontano nella sua interezza, definita nella forma come un piatto di portata su una tavola. La strada la penetrava e la trapassava fino al cuore: e tu vedevi proprio tutto, allestito apposta per il tuo passaggio. Queste cittadine, come le persone, avevano identità chiare che si potevano conoscere con la fantasia: vedevi case, cortili, campi, e in ogni luogo gente indaffarata, la gente che lì viveva la sua vita. Ne udivi gli orologi che battevano le ore, sentivi il profumo delle loro panetterie. E poi le avresti ritrovate, quelle cittadine, riconosciute nei dettagli salienti, visti così da vicino. Tutto era perfettamente a fuoco, e nel percorrere la via principale passando da quaranta a trenta chilometri all’ora non ti perdevi niente, né da un lato né dall’altro. Andare da qualche parte «per la campagna» ti rendeva familiare tutto quanto il percorso, andata e ritorno.

Mia madre non si abbandonò mai del tutto al piacere di quel nostro viaggio – giacché ogni istante era un vero piacere per tutti – perché sapeva che ci spostavamo con una pistola carica, riposta nel vano dello sportello dalla parte di papà. Dubito che mio padre abbia mai usato un’arma da fuoco in tutta la sua vita, ma di certo non avrebbe potuto condurre la famiglia in auto per la campagna da Jackson, nel Mississippi, fino in Ohio e in West Virginia senza un’adeguata protezione.

Non era la prima volta che mi portavano a trovare la nonna in West Virginia, ma la prima visita la ricordavo a stento. Ora mi trovavo...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.