Wieringa | Questi sono i nomi | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 263 Seiten

Wieringa Questi sono i nomi


1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7091-388-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 263 Seiten

ISBN: 978-88-7091-388-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Questi sono i nomi dei figli di Israele...' Così comincia il libro dell'Esodo, ma i sette profughi che vagano nella steppa sconfinata dell'Asia centrale non hanno nome. Non ricordano da quanto camminano, scaricati da un camion, divorati dagli stenti, sanno solo che devono andare verso occidente, che l'uomo di A?gabat comanda e la donna è costretta a ubbidirgli, che il bracconiere conosce i segni della terra e il ragazzo quelli dei sogni, e che il negro viene da un altro mondo e porta con sé l'ignoto. Nel frattempo a Michailopoli, cadente città di frontiera, tra furti, mazzette e slot machine, il commissario Pontus Beg cerca di dare un senso alla sua vita con le massime di Confucio, attendendo quella notte d'amore che la domestica, con ferrea disciplina, gli concede una volta al mese. Finché un vecchio rabbino, ultimo ebreo rimasto, gli rivela le sue vere radici. Il cammino di Beg verso un'identità, un'appartenenza, un riscatto dalla 'sporcizia' del mondo è destinato a incrociare quello dei profughi che attraversano il deserto per raggiungere la loro Terra Promessa. Con una lingua cristallina che sembra emergere dal silenzio della steppa per scolpire la realtà e una tensione che non dà tregua, Wieringa compone una parabola poetica su tutti gli erranti del XXI secolo, un romanzo totale che guarda fino agli orizzonti ancestrali dell'uomo, solo di fronte alla paura, ai limiti della ragione e alla forza della speranza.

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3

Economie


Alle sei e mezzo Pontus Beg era in piedi accanto al letto. Si stiracchiò come per liberarsi da una presa.

Si lavò e fece i gargarismi con il colluttorio. Nello specchio vide un uomo appesantito, il petto e le spalle coperti di peli brizzolati. Pensò al ragazzino che nuotava nel canale, a quel corpo liscio e senza peli. La ; il ricordo di un altro.

Nei tubi scrosciava l’acqua di scarico dell’appartamento sopra il suo. La cascata d’acqua di qualcuno che tira lo sciacquone. L’andamento a marea dell’edificio. All’inizio di ottobre era entrato in funzione il riscaldamento, il palazzo aveva cominciato a dilatarsi, scricchiolava, l’acqua calda scorreva sospirando nelle condutture.

Nascosto in una piega della tenda della doccia c’era il bicchiere con la dentiera superiore di Zita. Ricordava i suoi denti veri, che col tempo erano diventati di un marrone sempre più scuro. Quando rideva metteva la mano davanti alla bocca, si vergognava di quel sorriso color tabacco ma era terrorizzata dal dentista. Beg le aveva dato i soldi per farseli levare e sostituire con i nuovi. Lei aveva voluto l’anestesia totale e poi era rimasta senza denti finché non erano arrivati quelli nuovi.

L’odontotecnico aveva fatto un buon lavoro: quando rideva era come se aprisse un forziere di gioielli.

Posso comprare i denti, pensò Beg, ma non potrò mai far dire alla bocca quello che voglio io.

Zita viveva secondo il regime ferreo delle donne. Lavorava duro, non tollerava frivolezze. Le notti con Beg erano per lei una continuazione delle sue attività casalinghe: spolverare, pulire in terra, cucinare, lavare, stirare e rammendare le camicie e le uniformi lise. Svolgeva ognuno di quei compiti con lentezza e attenzione; a volte a letto gli sembrava di sentirla canticchiare.

Il vantaggio era per entrambi facilmente misurabile, nessuno dei due si sentiva vittima di un torto. Per Beg il loro accordo era il matrimonio ideale, per Zita un eccellente impiego.

Beg entrò in camera da letto. Le linee dure intorno alla bocca scavata, nel sonno sembrava altezzosa. Era l’espressione che assumeva il viso nel riposo, non diceva niente del suo carattere.

Le scosse una spalla.

“Sì sì”, borbottò lei.

In cucina si servì la minestra dalla pentola e cominciò a mangiarla fredda, prendendo di tanto in tanto un boccone di pane di segale.

“Cosa sono quei versi”, disse Zita dal bagno. “Sembri un maiale.”

Beg sorrise. Sì, era un buon matrimonio sotto ogni aspetto.

Quando Beg entrò nella sala d’attesa della centrale di polizia, due uomini scattarono in piedi e si misero a parlare concitati. Uno aveva investito e ucciso una pecora dell’altro. Il primo sosteneva che tutto il gregge aveva già attraversato la strada quando di colpo era sbucata l’ultima, “che pecora, signore”, disse poi l’altro, “una bestia magnifica!”

Beg sapeva che l’uccisione di una pecora era una faccenda complicata. Secondo vecchie consuetudini nomadi, non solo eri responsabile dell’animale che avevi ucciso ma dovevi risarcire fino a un determinato numero di generazioni successive, tanto da poter dire che per il pastore era stata una fortuna che una delle sue pecore fosse stata investita.

“Una pecora pezzata così bella non si era mai vista”, si lamentò il pastore.

“Basta!” sbottò Beg.

Dietro il banco Oksana faceva un solitario al computer.

“Dov’è Koller?” domandò Beg.

Oksana alzò lo sguardo. “Ha chiamato sua moglie. Un ascesso all’ascella. Non ha chiuso occhio, ha detto. È andato dal dottore.”

“Ma quante gliene vengono, di quelle cose?” chiese Beg irritato.

“Quell’altra era una fistola. Sul didietro.”

“E adesso chi stende il verbale?”

Oksana si girò a guardare gli uomini nella sala d’attesa. “In effetti è Koller di turno”, disse.

Beg scosse il capo. “Chiama Men’šov, buttalo giù dal letto.”

Si versò una tazza di tè ed entrò nel suo ufficio. Faceva caldo nella stanza, sentiva il proprio odore, mescolato al fumo di sigarette. Accese il computer ma lo schermo rimase nero. Premette di nuovo il pulsante ma continuò a non dare segni di vita. Chiamò Oksana. La donna diede un colpetto d’avviso alla porta ed entrò. Portava una gonna aderente, dove l’elastico stringeva si vedevano i contorni della biancheria. I primi bottoncini della camicetta di raso bianca erano aperti. In un ufficio pubblico, secondo Beg, non era possibile presentarsi così. Magari al bordello Morris, ma non alla sede centrale della polizia.

Fissò impotente lo schermo.

“Non funziona di nuovo?” chiese lei.

Beg si spinse indietro con le rotelle della sedia. Oksana si accovacciò e premette su POWER, poi si raddrizzò e girò intorno alla scrivania. “Ah, guarda”, disse, “è logico.”

Alzò la spina verso di lui. Promise di dare una strigliata agli addetti alle pulizie e la inserì nella presa. Il computer cominciò a brontolare, lo schermo si illuminò.

Beg rimpianse la sua macchina da scrivere.

Dopo un’ora Oksana venne a dirgli che né Koller né Men’šov erano ancora arrivati. I due uomini erano sempre lì.

“Di’ a Koller che se non si presenta immediatamente gli spezzo le braccia. È di turno questo weekend, porca miseria. Può benissimo stendere un verbale anche se ha una fistola.”

“Un ascesso.”

“È lo stesso.”

“Glielo riferirò parola per parola, più o meno.”

Beg aprì la piccola cassaforte nel suo ufficio. Sotto a tutto il resto c’erano i fondi di quel mese. Soldi infilati in buste, in sacchetti, piegati tra fogli A4, fermati da graffette, legati da elastici. Soldi raccolti dagli agenti per eccesso di velocità, per violazione del cartello di stop, per guida a piedi nudi – mettersi al volante di una macchina senza scarpe era indubbiamente proibito. Dopo aver fermato l’auto si chiedeva al conducente se voleva il verbale. Quello era il segnale con cui aveva inizio la transazione. Nessuno voleva comparire su un verbale. Le multe venivano pagate sul posto.

Beg calcolò il totale e lo suddivise in base al grado e agli anni di servizio. Aveva davanti una grossa pila di banconote che distribuì in tante mazzette. Le infilò in buste su cui scrisse il nome del destinatario. Il primo del mese ognuno ritirava la propria parte.

In questo paese tutti rubano a tutti, pensò. E chi non ruba, mendica. Ovunque si assisteva a passaggi di mano: non veniva costruita una casa né prestato un servizio senza che qualcuno s’intascasse la propria parte della transazione. Il sistema era universale, una rete colossale di mazzette, bustarelle, estorsioni, furti – e qualunque altro nome uno volesse dargli. Beg, da comandante della polizia, si trovava più o meno a metà scala; grosse mani arraffavano i bocconi sopra di lui, piccole mani rastrellavano le briciole sotto. Tutti partecipavano, era un regime economico di cui ciascuno approfittava ed era vittima.

Verso mezzogiorno lasciò la centrale e andò a pranzo al Tina’s Bazooka Bar. Michailopoli: era la sua città. Trentanovemila abitanti all’ultimo censimento. Città di confine, un tempo ospitava un rinomato istituto di ricerca nucleare e aveva una squadra di hockey su ghiaccio che era stata in serie A per due stagioni di fila ed era arrivata a un passo dal titolo di campione nazionale. Beg ricordava l’eccitazione. Al suo apice, all’inizio del secolo scorso, contava centocinquantamila abitanti. La stazione ferroviaria collegava Michailopoli al resto del mondo, partivano quindici treni ogni ora. Ora Beg non sapeva più nemmeno dove passavano i binari. Il ferro era stato strappato dal terreno e trasformato in capanni e staccionate. Le traversine erano state fatte a pezzi per sparire nelle stufe nei freddi mesi invernali. La stazione in sé, in stile art nouveau, era ancora in piedi, ma così malridotta da essere sul punto di crollare. In uno degli edifici più piccoli un becchino teneva le sue casse da morto.

Il declino di Michailopoli era stato tumultuoso quanto la sua fioritura. Un tempo c’erano diciassette chiese, ortodosse e cattoliche, e due sinagoghe. Le messe della chiesa ortodossa armena attiravano come mosche i ragazzi dei dintorni, perché le ragazze armene erano le più belle di tutte.

Beg ricordava le zuffe all’uscita della chiesa: padri e fratelli contro i bifolchi che avevano messo gli occhi sulle loro figlie e sorelle.

Nemmeno la chiesa armena esisteva più da tempo.

Parcheggiò davanti al Tina’s Bazooka Bar ed entrò.

“Pontus, tesoro”, lo accolse Tina quando si sedette al bancone.

Tina Bazooka: vicino a lei sudavano anche le icone dei santi.

Gli accarezzò il dorso della mano. Le pose da bordello rimangono a vita.

Era appena rientrata da una visita al figlio che viveva a sud, da sua madre. Mise nel microonde il polpettone e versò a Beg un...



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